Una delle qualità dellə amanti della fantascienza è l’essere ostinatamente indulgenti, sorprendere l’incredulità con un agio e una fiducia sconfinati.
È per esempio la capacità di considerare capolavori opere come 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: un film lungo, complesso e piuttosto noioso, che mette in scena tra le altre cose un 2001 in cui è possibile spostarsi tra pianeti a bordo di un’astronave guidata da un supercomputer ad Intelligenza Artificiale di nome HAL 9000 (fun fact: HAL è lo slittamento indietro di IBM, perciò oggi forse lo chiameremmo “Pear” o “Lemon”).
Apprezzare speculazioni come quella di 2001: Odissea nello spazio è imparare a silenziare il senso di tenerezza per i loro autori, anche i più grandi visionari e padri del genere fantascientifico come Arthur C. Clarke. Che dire, per esempio, di William Gibson, che negli anni Ottanta descriveva la rete come un ambiente quadridimensionale e altamente iconico, fatto di avatar e “stanze” fisiche? O l’idea del videogioco come mondo parallelo totalmente immersivo, come quello che dà il nome al film Tron del 1982? Oppure Arnold Schwarzenegger nei panni del poco empatico cyborg Terminator, originario degli anni Trenta circa del Ventunesimo secolo? O ancora delle automobili volanti che popolano il 2015 del secondo Ritorno al futuro?
Bivio Ventiventi
Ci sono dei momenti nella storia, più o meno precisi, in cui la fantascienza diventa obsoleta. O meglio, in cui ci rendiamo conto che il modo in cui fino ad allora avevamo immaginato il futuro, ha perso un po’ della sua verosimiglianza. I lettori di fantascienza conoscono bene questa sensazione: la sensazione di aver superato un bivio. Hanno imparato ad amare Jules Verne anche dopo l’allunaggio del 1969, Philip K. Dick dopo la fine guerra fredda, Ray Bradbury e William Gibson dopo l’avvento dei personal computer e della rete. Ci sono degli eventi che cambiano la Storia e reindirizzano il futuro, momenti in cui l’umanità prende coscienza di qualcosa, e non sarà più possibile tornare indietro. Lenti passaggi o duri colpi che impongono un cambiamento di rotta a chiunque voglia provare a immaginare il futuro.
Oggi possiamo pensare di abitare uno di questi momenti. La pandemia, che peraltro è sempre stata un soggetto tipico della fantascienza, è arrivata. Abbiamo scoperto che alcune delle immagini apocalittiche di Io sono leggenda di Richard Matheson e L’ombra dello scorpione di Stephen King (e relativi adattamenti cinematografici) erano in realtà meno assurde di quel che pensavamo. Eppure, al tempo stesso, scopriamo che molti dei futuri che avevamo immaginato per noi come singoli, per la nostra specie e per il nostro pianeta, non tenevano veramente conto dell’eventualità che una o più epidemie ci sarebbero state.
Al risveglio da sogni inquieti
In The lathe of Heaven di Ursula K. Le Guin, il protagonista ha un dono particolare e molto pericoloso: i suoi sogni si avverano. Il potere di George Orr fa sì che non solo il mondo circostante cambi dopo che lui ha sognato, ma i suoi sogni funzionano anche retroattivamente, creando un nuovo passato che ha condotto a un diverso presente.
In una delle scene madri del romanzo, Orr è sottoposto a un esperimento da parte dello psicoterapeuta che lo ha in cura, il dottor Haber. Poiché Orr è legittimamente ossessionato dalla sovrappopolazione mondiale, il dottor Haber, lo induce in stato di ipnosi a sognare la fine di questo problema, in modo da sollevarlo da questa sua ossessione. E così, sotto gli occhi di Haber e di un’attonita avvocata intenzionata a scoprire di più sulla vicenda, Orr si addormenta, e presto, fuori dalle finestre dello studio di Haber, il paesaggio inizia a cambiare. Al suo risveglio, Orr trova un mondo diverso in cui, alcuni anni prima, c’è stata una violentissima epidemia (“the Plague”) che ha ridotto a un sesto la popolazione mondiale. E tuttavia lui, insieme ad Haber e all’avvocata, sono le uniche tre persone sulla faccia della Terra a conservare memoria di entrambi i mondi:
«quello (non più) vero, con un popolazione umana di quasi sette miliardi in crescita secondo una progressione geometrica, e quello (ormai) vero, con una popolazione di meno di un miliardo e non ancora stabilizzata.»
In questo preciso momento i tre sanno che l’epidemia c’è stata, che le persone sono morte, e che non c’è nulla che loro possano fare per cambiarlo. In questo preciso istante prendono coscienza del fatto che il futuro che fino a un’ora prima credevano essere il più verosimilmente vicino, ha smesso di esistere.
Interrogarsi sul futuro all’alba del 2021 significa sentirsi esattamente come George Orr. Significa, all’improvviso, svegliarsi da un sonno inquieto, e sapere dentro di sé, senza bisogno di apprenderlo, che la pandemia c’è stata. Che se fino a un certo punto eravamo così distratti dal presente, dal dramma e dalle restrizioni, da non riuscire a immaginare nient’altro al di fuori di noi stessi, adesso per la prima volta ci rendiamo conto che il nostro futuro non sarà più uguale.
Riguardare alla fantascienza
Se da un lato abbiamo scoperto che probabilmente sappiamo resistere a una pandemia meglio di quanto certi autori ci avevano fatto credere, sappiamo anche che il soggetto stesso dell’epidemia globale è assai vicino a noi, ormai in lizza per uscire dai generi storico e fantascientifico, ed entrare a pieno titolo, con nome e data, nel nostro amato neorealismo (o comunque si chiamerà il prossimo futuro del romanzo “d’autore”). E mentre fino a ieri e sempre di più, pensavamo che nella trama del futuro l’antagonista sarebbe stato una creatura non (o non del tutto) organica, nipote di HAL e di Terminator, all’indomani del 2020, abbiamo il sospetto che le nostre paure saranno anche intrecciate alla nostra natura biologica.
Ci sarà poi un giorno in cui guarderemo Wall-e o la serie Love, Death, Robots, e proveremo la stessa tenerezza che abbiamo provato nel 2001 riguardando 2001: Odissea nello spazio, poi nel 2015 con Ritorno al futuro II, e infine nel 2019 con Blade Runner. E allora forse cominceremo ad accettare lo spirito della fantascienza, che non è solo l’essere ostinatamente indulgenti, ma anche il cercare in tutti i modi di procrastinare la resa dei conti, l’inevitabile disallineamento tra quello che è e quello che pensavamo sarebbe stato. E forse perdoneremo anche gli sceneggiatori di Blade Runner 2049, per aver cercato di mettere a frutto il tempo trascorso e le sue lezioni sul futuro – e anche quelli del film Io, Robot che, a differenza dei racconti di Asimov, è ambientato in un lontano 2035 di cui sappiamo solo una cosa: non assomiglierà per niente a quello vero.
E il solarpunk?
E in ultimo naturalmente il solarpunk, che al momento della prima stesura di questa nota si imponeva come una necessità non soddisfatta e oggi appare come una scoperta confortante sebbene dal movimento emergano già aspetti politicamente problematici.
Abbiamo ormai appurato che la pandemia di Covid non ha rappresentato quel momento di radicale rottura dell’immaginario che ci aspettavamo. I sentimenti nei suoi confronti sono altalena(n)ti da uno stato di rimozione narrativa e politica a uno di normalizzazione e messa in prospettiva storica – in altre parole, la pandemia è effettivamente entrata a far parte della narrazione neorealista, solo non tanto quanto credevamo. Se ci ha insegnato qualcosa come società noi crediamo modestamente di no. Come individui d’altra parte, ha contribuito a insegnarci ad amare il futuro.
Il solarpunk, a differenza di tutti gli esempi di fantascienza citati prima ha due caratteristiche:
- emerge da una riflessione teorica a monte, che viene prima e non dopo l’elaborazione artistica e la costruzione del “movimento”. Il solarpunk nasce come un bisogno e un’astrazione, qualcosa che “vorremmo ci fosse”, come riporta Jay Spingett nell’introduzione alla raccolta Solarpunk. Dalla disperazione alla strategia.
- In secondo luogo il solarpunk – perlomeno quello che interessa a noi – si pone come obiettivo di disegnare un futuro molto vicino eppure politicamente estremo, quasi un presente alternativo come nei meme:
Forse viviamo già nella fantascienza insomma, o forse potremmo viverci. Quello che è certo è che sempre di più abbiamo gli strumenti tecnici per realizzare quel tipo di mondo (solo di auguriamo che ChatGPT non sia come HAL 9000), ma che a fare la differenza tra uno e l’altro di questi futuri è ancora una volta il modo in cui sono distribuite.
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