Cose interessanti che si trovano in qesto libro, raccontate per chi ha di meglio da fare che leggerlo
Categories
libri

Riot. Sciopero. Riot // Joshua Clover

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata…

16/09/2024
Mycena

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata.

Con Riot. Sciopero. Riot (2016), Joshua Clover si pone l’obiettivo di comprendere l’emergere e il diffondersi dei riot inserendoli in un quadro teorico marxista. Come già altri, Clover si pone di fronte al riot come fenomeno che acquista sempre più rilievo nella contemporaneità, nell’ambito delle lotte del lavoro e delle classi inferiori più in generale. Da piazza Tienanmen ai movimenti Occupy, da Gezi Park ai primi riot di Black Lives Matter nel 2014. Sembra che queste forme di lotta si manifestino con delle caratteristiche peculiari, che in qualche modo riflettono il più ampio contesto storico in cui ci troviamo.

La nota che segue viene da una relazione scritta per un corso universitario. Tutto l’accademismo e la pedanteria del lessico marxista e sociologico sono difetti che andranno senz’altro corretti prima o poi…

Partiamo dalla differenza, centrale nell’analisi, tra lotte della classe lavoratrice, che (con alcune eccezioni) identifichiamo nell’organizzazione sindacale e la pratica dello sciopero, e riot, che non emergono da una classe immediatamente identificabile e non rispecchiano una forma di organizzazione né rivendicazioni politiche facilmente riconducibili al campo del socialismo. Clover in questo libro sostiene che, lungi dall’essere una degenerazione dell’organizzazione, il riot, proprio come lo sciopero, nasce e si sviluppa come risposta a una specifica fase di sviluppo del capitalismo, e avanza una periodizzazione rispettivamente della prima epoca dei riot, o riot, dell’epoca degli scioperi, e della seconda epoca del riot, o riot’, ossia quella in cui ci troviamo.

I Cicli Sistemici di Accumulazione

La tesi di Clover si basa su un’analisi storica materialista dei cicli sistemici di accumulazione che caratterizzano lo sviluppo del capitalismo fin dalle sue prime forme (la repubblica genovese nel secolo XV-XVI, come indicato da Marx). A partire dall’analisi dei cicli sistemici di accumulazione del capitale descritti da Giovanni Arrighi in Il Lungo XX Secolo (1994), Clover descrive il ciclo guidato da una singola economia nazionale come suddiviso in due fasi. Nella prima, detta della produzione, all’aumento della produzione corrispondono dei profitti, che nella seconda fase, quella della circolazione, vengono investiti altrove. Storicamente, questi investimenti di capitale conducono all’aumento della produzione in un altro territorio e, dopo un periodo di compresenza tra la fase di circolazione di un ciclo e quella di produzione di un altro (ad esempio l’Impero britannico e gli USA tra la fine del XIX secolo e le due Guerre mondiali), la nuova economia diventa egemone e inaugura un nuovo ciclo di accumulazione.

Per Clover gli elementi comuni tra le caratteristiche dell’economia prima del XIX secolo e la contemporaneità, dagli anni ’70 del Novecento in poi, si riconducono all’essere entrambe fasi di circolazione, in cui l’investimento di capitale è prevalente e caratterizzante rispetto alla produzione di merci, e a ciò si devono anche simili pratiche di lotta da parte delle classi subordinate.

Due punti sono fondamentali per comprendere questa analisi. Il primo è che le fasi di produzione e circolazione non vanno lette come consequenziali, come se tutta la produzione fosse concentrata in un solo periodo, o come se il profitto derivasse principalmente dalla produzione o dalla circolazione. Quello che Clover sottolinea è che produzione e circolazione hanno nelle rispettive fasi un’importanza di tipo qualitativo, in quanto definiscono il centro nevralgico del sistema capitalista in quella fase. Questo è reso evidente dal manifestarsi di blocchi della produzione o della circolazione come strategia di lotta nel conflitto di classe, strategie che sono tanto più efficaci quanto più colpiscono i luoghi centrali in una determinata fase economica (la fabbrica da un lato e il mercato o il porto dall’altro). Per questo, buona parte del libro è dedicata a descrivere tanto la prima fase dei riot quanto quella successiva delle lotte sindacali, contestualizzandole alla luce dell’analisi storica, e mettendo il luce come esse rispondessero a condizioni macro economiche.

Chiave di volta è la crisi del 1973 e il conseguente profondo cambiamento nelle lotte sindacali, fortemente ridimensionate ma anche essenzialmente mutate: da lotte rivoluzionarie per la riproduzione attraverso l’imposizione del salario, esse diventano lotte in cui «capitale e lavoro si trovano a collaborare per preservare la capacità di autoriproduzione del capitale, mantenendo in vita i rapporti di lavoro di pari passo con la sopravvivenza dell’azienda» [p. 171i] , in quella che Clover definisce la “trappola dell’affermazione”. La perdita di efficacia della lotta sindacale, unita al riemergere del riot, è indice dello spostamento del centro di valorizzazione del capitale, un fenomeno che assume le forme di quella che chiamiamo finanziarizzazione. In questo senso, la corrispondenza tra l’analisi materialista della longue durée e le forme di lotta che caratterizzano un periodo – forme che Clover chiama, con Charles Tilly, repertori dell’azione collettiva – dimostra la consistenza della tesi. E soprattutto, dimostra l’impossibilità di auspicare oggi un ritorno a forme di lotta sindacale di stampo novecentesco, e la necessità di sviluppare una comprensione dei riot da parte del pensiero socialistaii.

La Lunga Crisi

Il secondo punto evidenziato da Clover riguarda la natura sistemica della crisi del capitalismo contemporaneo. Rifacendosi alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, Clover con Arrighi individua nell’attuale espansione finanziaria un aumento del capitale fisso in rapporto al capitale variabile, dato dalla ricerca di profitti al di fuori del settore produttivo. La conseguenza della diminuzione del plusvalore assoluto prodotto dalla società è «non tanto una carenza di denaro, bensì il suo sovrappiù. Il profitto maturato giace inutilizzato, incapace di trasformarsi in capitale, poiché non c’è più alcuna ragione abbastanza attrattiva per investire in nuova produzione.» [p. 45] Questo fa sì che un nuovo ciclo di accumulazione guidato da un nuovo protagonista tardi a iniziare.

La crisi diventa esiziale, descritta come «il collasso della produzione di valore alla base del sistema-mondo» [p. 42]. I profitti maturati dall’economia a guida statunitense, in particolare nella stagione keynesiana post-bellica, sono oggi alla ricerca di un nuovo centro di produzione in ascesa, senza però trovarlo. I dati riportati da Clover raccontano di un progressivo rallentamento dell’economia globale, solo apparentemente mascherato dall’espansione dell’economia finanziaria. Di nuovo, questo non vuol dire che non ci sia produzione o che essa non sia in aumento in termini assoluti, ma che essa non è trainante rispetto all’economia globale. L’apparente impossibilità di iniziare un nuovo ciclo di accumulazione è per Clover indice della fine del metaciclo del capitalismo in Occidente, che aveva raggiunto il suo apice nell’espansione della produzione industriale. L’inizio di un altro ciclo in economie non occidentali non è avvenuto, prolungando la crisi e rendendola visibile a diversi livelli dell’economia e della società. La crisi è quindi, insieme alla circolazione, caratteristica dell’epoca dei riot.

I Riot stanno arrivando

Clover trae la sua definizione di riot a partire da un’analisi storica situata tra il XVI e il XIX secolo circa. Innanzitutto rifiuta una visione che afferma la continuità tra sciopero e riot, considerando quest’ultimo come una manifestazione violenta del primo. Rifiuta, in secondo luogo, riprendendo L’economia morale di Edward P. Thompson, il “riduzionismo economicista” del riot a fenomeno impolitico, che pretende di ricondurre l’esplosione del riot alla scarsità materiale, e finanche di fissare delle soglie quantitative di questa scarsità (vd. New England Complex Systems Institute, 2011). Infine, rifiuta una visione del riot come esclusivamente motivato da una pochezza ideologica che non permette di arrivare a forme più organizzate di lotta.

Superando le categorie di violenza e politicizzazione, definisce il riot come «una forma di azione collettiva che

– lotta per poter regolare il prezzo dei prodotti sul mercato (o la loro disponibilità[…]);

– può essere agita da partecipanti il cui unico legame è lo spossessamento;

– si sviluppa nell’ambito del consumo, portando all’interruzione della circolazione commerciale.» [p. 35]

Il riot emerge come forma di lotta della popolazione di fronte agli ostacoli nella sua riproduzione, riproduzione che passa attraverso l’accesso al consumo e non il prezzo del lavoro (come invece accade nello sciopero). All’interno di questa definizione sono però presenti delle peculiarità relative ai due periodi rispettivamente del riot e del riot’.

Nel riot, la lotta per l’accesso al consumo ha luogo nella piazza del mercato tramite l’imposizione dei prezzi, poiché in questo contesto è possibile agire direttamente sui luoghi dello scambio delle merci. Nel riot’ invece a lottare è una popolazione sovrannumeraria o sovrappiù, che agisce nei luoghi di consumo, identificati con il tessuto urbano, e nei luoghi di circolazione delle merci, le autostrade, i porti ecc. L’azione nei luoghi dello scambio, tentata almeno simbolicamente da movimenti come Occupy Wall Street, è preclusa dalla mancanza di un corrispondente fisico del mercato, ma anche dal fatto che l’intercapedine tra luoghi del consumo e luoghi della valorizzazione è presidiata da forze di polizia impiegate nel gestire questa popolazione sovrannumeraria.

Un’ulteriore specificità risulta importante. Proprio delle società contemporanee è il fatto che il sovrappiù urbano prende corpo all’intersezione con altre pratiche di esclusione, e in particolare quelle razziali. Secondo Clover sono i riot portati avanti dalle persone nere negli Stati Uniti a preannunciare, prima ancora della crisi del 1973, le attuali forme di lotta, poiché queste popolazioni già vivevano le forme di spossessamento che si sarebbero in seguito estese a gran parte della popolazione, in primis i marginali, ma non solo. Per questo spesso questi riot assumono la forma di lotte contro un regime razziale. Clover non nega questa percezione che ne ha chi vi partecipa, ma afferma con Stuart Hall che «la razza è la modalità in cui si vive la classe» [p. 192] e che quindi «il riot è la modalità in cui si vive il sovrappiù» [p. 194].

La Coscienza dei Riot

Quest’ultimo punto, il viversi riflessivo del sovrappiù, mette in luce il punto di vista di Clover sul tema dell’autocoscienza di chi partecipa al riot. Si inserisce nel solco di Thompson, per cui l’economia morale determina effettivamente delle forme di coscienza politica della classe contadina inglese del XVIII secolo, che si esplicano nella tattica e nella preparazione dei cosiddetti “tumulti del pane”, pur essendo volte al recupero di politiche paternaliste. Anche per Clover la politicità non è in dubbio, anzi il riot è «un insieme di pratiche che fronteggiano circostanze concrete, con o senza quell’immaginario specifico, riguardante l’autocoscienza riflessiva dei partecipanti, sul quale si concentrano tante interpretazioni.» [p. 63] In questo senso Clover distingue l’autocoscienza di classe e l’azione della classe in quanto tale, leggendo il riot come espressione della lotta di classe in una specifica fase storica, quella di circolazione del capitale, con o senza, appunto, un aspetto di autocoscienza.

Qualunque sia la motivazione interna di chi partecipa al riot, per Clover emerge anch’essa dalla struttura del capitale, e agisce secondo le forme di lotta che meglio rispondono alle necessità di riproduzione. La stessa autocoscienza della classe lavoratrice è uno di questi strumenti, che può rispondere alle condizioni storiche, come nella fase dello sciopero, o non rispondere e rivelarsi inutile o limitante, come nel caso di persone che vivono le stesse forme di spossessamento ma che difficilmente possono identificarsi e organizzarsi come classe lavoratrice perché non hanno accesso al salario.

Il Punto di Vista

Proprio il tema della coscienza riflessiva mette in luce quello che si potrebbe considerare un limite della postura scelta da Clover. Il distacco che mantiene nei confronti delle forme del riot contemporaneo fa sì che nella sua teoria non ci sia un “punto di vista emico” rispetto alle azioni che descrive. La definizione di “riot” o “lotte della circolazione” risulta vagamente uniforme al suo interno, e in particolare, non restituisce alcune differenze tra i diversi riot per quanto riguarda il grado e il tipo di coscienza e organizzazione politica che i partecipanti portano con sé, ad esempio tra Occupy e Black Lives Matter. Pur considerando il riot come un evento specifico e situato, la teoria di Clover non si sofferma a considerare il modo in cui anche le forme della coscienza politica dei partecipanti, al di là dell’essere riconducibili a una particolare fase del capitalismo, sono specifiche e situate.

Prendendo in prestito il modello sociologico del cambiamento sociale di Colemaniii, sembra che la teoria di Clover cerchi di passare da una determinazione generale (la fase di circolazione del capitalismo nei suoi cicli di accumulazione sistemica) a un’altra determinazione generale (l’emergere del riot come strategia dell’azione collettiva). Ovviamente Clover è consapevole che tra le due si verificano dei cambiamenti che coinvolgono la situazione particolare dell’individuo o della comunità, minoranza o gruppo sociale, ma non è interessato a descrivere i meccanismi in cui il capitale in questa fase agisce sulle vite delle persone, il modo in cui per il singolo si rende possibile e pensabile la partecipazione a uno specifico riot, e i modi in cui queste specificità fanno agire i partecipantiiv

Coleman's Boat Model

Il poco spazio che Clover dedica a questi meccanismi e alle ragioni politiche che muovono i riot, rimanda a una rigidità del rapporto tra struttura e sovrastruttura che altri autori marxisti come Poulanzas hanno criticato, come già il concetto althusseriano di surdeterminazionev.

L’unica eccezione, come si diceva, è dedicata all’esclusione su base razziale, che è sicuramente preponderante dal punto di vista numerico nel contesto statunitense, ma forse non giustifica completamente la scelta di considerare questo e non altri tipi di esclusione con caratteristiche loro proprie. Un esempio mi viene dagli Stonewall riots del 1969. Come mette in luce la storica Susan Stryker, il territorio in cui hanno luogo gli Stonewall riots si caratterizza come una nicchia di degrado urbano in una città in forte espansione economica. Il quartiere del Greenwich Village raccoglie diverse forme di marginalità, in particolare popolazione nera, latina e migrante, lavoratori poveri o dediti all’economia informale, droga e lavoro sessuale, attività commerciali coinvolte nella mafia, e non da ultimo persone appartenenti a minoranze sessuali che partecipano a tutte queste attività e hanno costruito in questo quartiere forme di socialità e di mutuo appoggio informale (le cosiddette houses). Negli Stonewall riots entrano quindi in gioco questioni di classe e razziali, ma a fare da catalizzatore è la repressione statale nei confronti delle minoranze sessuali, in particolare transgender e travestite, che in questo specifico caso è determinante sia nelle forme che la repressione assume (l’applicazione della sezione 887 del CPP dello Stato di New York) che nelle forme di resistenza (come la nascita di lì a poco di STAR e altre esperienze politiche rivoluzionarie). In questo specifico esempio, si potrebbe pensare alla repressione delle non conformità di genere come a una delle forme che il disciplinamento delle popolazioni in senso foucaultiano assume, e leggere le specificità politiche di questi riot come punti di partenza per esercitare un reciproco riconoscimento in un movimento di lotta composito, com’è stato il caso dei Social Forum.

Sul piano invece analitico, il punto non è di trattare il riot ricorrendo a spiegazioni individuali (cosa che fanno molti altri testi, e che Clover si propone esplicitamente di non fare), quanto il mettere insieme i due piani della teoria materialista di Clover e dell’autocoscienza dei riot, per cercare di fare luce su meccanismi di generazione dell’azione che non sono certamente sufficienti a spiegare il riot in una prospettiva sistemica, ma che forse non sono neanche del tutto superflui.


Note

i Tutte le citazioni di Riot. Sciopero. Riot hanno il numero di pagina che si riferisce all’edizione italiana: J. Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, 2023, Meltemi Editore

ii Intorno alla necessità di ritornare a forme di lotta sindacale si sviluppano alcune delle principali critiche mosse al testo da parte socialista. Vd. https://jacobin.com/2018/05/riot-strike-riot-joshua-clover-review

iii Penso al modello di Coleman semplicemente come schema descrittivo, lasciando fuori il discorso della rational choice theory e anche il suo uso nell’ambito del neoistituzionalismo. È un uso eccentrico e forse impreciso, ma in generale trovo che sarebbe interessante capire se e come il modello di Coleman potrebbe essere usato per spiegare il rapporto tra forme del capitalismo e strategie dell’azione collettiva.

iv La stragrande maggioranza dei casi che Clover cita hanno luogo in quello che consideriamo Occidente. È significativo che le pratiche dello sciopero e del riot (per come Clover lo intende, cioè legato alla circolazione), nascano e si sviluppino in zone industrializzate e poi de-industrializzate. Fa emergere anche la domanda su che forma assumano queste lotte in contesti molto diversi; detto altrimenti: una dinamica del capitale che è su scala globale produce forme di resistenza anch’esse globali? Clover non lo affronta, ma mi sembra che possa essere un punto interessante per capire meglio quali fattori determinano l’emergere di una repertorio d’azione, e in che modo.

v A questo proposito Clover risponde:

The question of causality in capital’s movement cannot be elided. One may of course retreat into ideas of overdetermination; it is an understandable solution to the problem of simplifying models vs. complexifying arrays. Marx himself was an adherent of ceteris paribus, precisely so he could inquire into capitalism’s laws of motion — inquiries which, in detecting not just a direction but a cause for that direction, can in turn suggest trajectories rather than hurl themselves into a mysterious world of evental surprises. Such inquiries are not “prophesy “or “portent” or any of the other portentous language Toscano deploys. They are expressions of the sine qua non of historical materialism: that the movement of history includes an objective character.

In: https://viewpointmag.com/2016/09/29/final-remarks/#:~:text=The question of causality in capital’s movement cannot be elided.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *