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Uno dei temi più presenti a Torino, la città in cui vivo – ma anche in molte altre – è quello della crisi abitativa, ovvero della sempre maggior difficoltà delle persone di rispondere alla loro necessità di trovare un alloggio. Una difficoltà che si accompagna a una serie di processi: scarsità dell’offerta di abitazioni, mancata manutenzione degli alloggi, aumento incontrollato degli affitti, presenza di numerosi immobili sfitti o inutilizzati, assenza di politiche pubbliche in merito…
Su questa tematica si muovono progetti politici come Vuoti a rendere ma, ovviamente, anche a livello di ricerca è presente molto dibattito sulle attuali condizioni abitative e, ad esempio, sul legame tra il mercato immobiliare e la mancata disponibilità di alloggi nelle grandi città. Un campo di ricerca in cui mi sono imbattutə in questi giorni dando una mano al lavoro di tesi di unə amichə, ma in cui mi è sembrato di scorgere una contraddizione che mi ha reso necessario pensare un attimo alle definizioni e sfoderare un po’ di marxismo.
Nel tentativo di ricondurre tutte le caratteristiche della crisi abitativa che ho elencato emerge uno scollamento e quasi una contraddizione tra alcuni di essi: in che senso salgono gli affitti ma le case rimangono vuote? Come fa a esserci molta domanda e poca offerta se il mercato immobiliare agisce senza costrizioni politiche?
La risposta che viene data normalmente gioca su due termini: rendita e mercificazione. Da un lato la rendita è diventata la colonna portante dell’economia urbana odierna, superando da molti anni la produzione nelle nostre desolate città de-industrializzate; dall’altra, questa condizione si crea per una mercificazione dell’abitazione, che diventa parte di un mercato volto a generare profitto più che a rispondere alla necessità abitativa della popolazione.
Ma proprio qui risiede la contraddizione, almeno in apparenza. Rendita e mercificazione sono due processi opposti, o quantomeno non sovrapponibili. La rendita riguarda beni immobili, con un assetto di proprietà fisso che dona certi proventi alla persona proprietaria, mentre la mercificazione interessa beni mobili, scambiati sul mercato in modo da ottenere profitto sulla base del loro valore di scambio. Come fanno ad aumentare rispettivamente rendita e mercificazione?
Dopo averci riflettuto un po’, penso che quello che serve sia una disambiguazione, ovvero definire meglio le cose e distinguerne le parti. Per farlo mi rifaccio a Marx e a chi ne ha interpretato il pensiero, non tanto per dare una risposta giusta a questi quesiti quanto per darne una feconda, capace di farci intravedere connessioni inaspettate dietro ai fenomeni di cui parliamo.
Nota di metodo: ho scelto di scrivere questa nota usando solo fonti secondarie trovate online. Il tentativo è quello di rendere il marxismo più accessibile, pratico anche per chi non ha sotto mano una copia del capitale – e nel farlo mostrare quanto sia una chiave utile per interpretare la realtà, oltre ogni accademicismo.
Innanzitutto, voglio sottolineare che questa apparente contraddizione tra una città fondiaria, prigioniera dei rentiers (leggi: palazzinari), e una mercificata, distorta dall’azione dei mercati, non è qualcosa di nuovo. Un acuto osservatore delle città quale Henri Lefebvre ha notato
[…] la netta separazione del valore d’uso della città, della vita urbana, del tempo urbano, rispetto al valore di scambio degli spazi acquistati e venduti, del consumo dei beni, dei luoghi, dei segni urbani. In sostanza la città del capitalismo fordista ha tutte le caratteristiche di una merce senza mai esserlo veramente e nemmeno diventarlo. Un campo di tensione tra valore d’uso e valore di scambio ‒ generato da quel processo a due facce dell’industrializzazione/urbanizzazione ‒ che mai si risolve in un senso o nell’altro […].
Un diritto alla città oltre i diritti? // Felice Mometti – corsivi miei
Già nella città fordista, in piena espansione e ben lontana dall’essere soffocata dai processi di gentrificazione odierni, la mercificazione sembra qualcosa di evidente ma difficilmente applicabile. Emerge una tensione tra un valore d’uso (ovvero il valore che qualcosa ha in quanto soddisfa dei bisogni) e il valore di scambio (il valore che qualcosa ha in modo astratto in quanto scambiabile con altri beni). Queste due forme di valore sono profondamente legate ai due concetti che stiamo trattando – rendita e mercificazione – tanto che in un’ottica marxista definiscono rispettivamente due diverse strutture economiche.
La rendita è la caratteristica fondamentale del periodo feudale, che si basa sull’estrazione di valore d’uso dalla popolazione contadina. Citando dal Dizionario enciclopedico marxista:
[La rendita o rendita fondiaria] è costituita da ciò che i proprietari della terra ricavano da coloro che la lavorano. Così nel periodo feudale i servi erano tenuti a lavorare una parte della settimana per i proprietari terrieri, cioè per i signori dei feudi […]
L’affermarsi del capitalismo riduce questo tipo di rendita a un fenomeno sempre più marginale, fino a trasformarla completamente da rendita in prodotto a rendita monetaria, basata quindi sul valore di scambio:
Quando comincia a subentrare la possibilità di convertire in denaro il prodotto della terra grazie allo stabilizzarsi di un mercato dei prodotti agricoli, la rendita in prodotto diventa rendita monetaria; fatto che storicamente coincide – e ne è parte integrante – col processo di dissoluzione del modo di produzione feudale.
In ottica marxista oggi siamo nell’epoca del dominio del valore di scambio, in quella fase della storia in cui il processo denaro-merce-denaro, cioè l’investimento mirato solo all’accumulazione di più capitale da reinvestire, è arrivato a inglobare ogni parte della nostra vita. La rendita, che presenta una logica diversa e opposta a quella dell’investimento, per quanto possa essere un fenomeno macroscopico nella città moderna, non può uscire da questo contesto. Citando Marx, sempre per mezzo di Lefebvre:
la distinzione di capitale e terra, di profitto e rendita fondiaria, come di entrambi e salario, di industria e agricoltura, di proprietà privata immobile e mobile, è ancora una distinzione storica
cioè non una vera differenza funzionale o economica, quanto un modo socialmente dato di distribuire parti diverse dello stesso profitto, ottenuto dall’appropriazione del plusvalore.
La prima disambiguazione da fare è quindi legata alla rendita: non si tratta di un modo di generare profitto in una città deindustrializzata, quanto di una forma specifica di redistribuzione dei profitti capitalisti, sempre basati sul lavoro salariato e sulla produzione, ma ormai generati in gran parte in altre zone del mondo. Redistribuzione mediata dalla forma particolare di proprietà fondiaria odierna e dalla mancanza di “minacce” politiche alle disuguaglianze nell’accesso alla casa.
Il proprietario fondiario mette a disposizione i beni immobili necessari al processo produttivo, siano essi i campi dove coltivare o allevare bestiame, oppure gli edifici in cui si effettuano le lavorazioni. Anche a lui è dovuto un compenso per questo servizio sotto forma di rendita fondiaria […] Il plusvalore, quindi, si ripartisce fra profitto industriale, guadagno commerciale, interesse, rendita fondiaria ecc., ma è nell’azienda produttiva che esso viene prodotto a prescindere da come viene ripartito fra i vari capitalisti.
Marx, la trasformazione del plusvalore in profitto, interesse e rendita // Ascanio Bernardeschi
Ma proprio la presenza di queste forme socialmente mediate e contingenti di redistribuzione ci portano alla seconda disambiguazione, che riguarda invece la mercificazione. Essa non è solo un processo che porta un oggetto a essere scambiato su un mercato, a diventare esso stesso merce. La mercificazione è un processo sistemico che investe un’intera società in cui si afferma il concetto capitalista di valore e che può persino prescindere dall’effettiva produzione di beni materiali:
[La mercificazione è] la subordinazione degli ambiti pubblici e privati alla logica del capitalismo.
Terms Used by Marxism // Felluga, Dino – traduzione mia
Dunque, investe anche beni non scambiati direttamente sul mercato ma immersi nei rapporti sociali completamente mediati dallo scambio economico.
Le file di case abbandonate a Detroit lasciate dalla crisi del 2008 sono un esempio dell’utilità di questa doppia specifica. Costruite in fretta e furia, non erano mirate alla vendita in sé quanto al guadagno che i mutui su quelle case, opportunamente impacchettati in strumenti finanziari, avrebbero generato per le banche. Dunque da un lato non è presente quella che chiameremmo una rendita, e anzi i tassi agevolati dei mutui potevamo essere letti come un modo positivo di redistribuire patrimonio immobiliare, cioè beni duraturi spesso lasciati in eredità e non considerati beni da scambiare per ottenere profitto. Ma la mercificazione, il guadagno portato dai famosi sub-prime, era sempre presente sia nel creare questa situazione che nel farla drammaticamente esplodere di lì a poco.
Per contro, attualmente nelle città italiane vediamo un processo dove la mercificazione, nel senso letterale di considerare le case come merce, sembrerebbe un toccasana: case lasciate vuote mentre le persone faticano a trovare alloggi, in una situazione che sembra determinata totalmente dall’oziosa rendita di poche persone abbienti. Se ci fosse più scambio e investimento, se ci fosse competizione da parte dell’offerta, probabilmente parte di questi problemi sparirebbero. Ma come abbiamo detto il profitto vero, quello che muove capitali e invoglia agli investimenti, e che in una certa misura porta a formare mercati con effetti positivi, non si crea più nelle nostre città.
La mercificazione rimane, ma non siamo più nel fulcro che la muove – ne siamo ai margini, definitɜ da un altrove sempre meno a portata di mano. Il capitale si allontana ma le disuguaglianze restano, e restano abbastanza privilegi perchè parte della popolazione possa stornare verso di sè parte dei profitti che circolano globalmente.
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