Uno degli elementi per così dire “dottrinali” che distingue un anarchismo “trade” dall’anarchismo teorico è la differenza tra potere e dominio. Un’idea diffusa è quella dell’anarchia come assenza di stato e dunque assenza di potere.
Un esempio che ci ha fatto particolarmente innervosire è la traduzione italiana di Anarchia: cosa significa e cosa propone davvero (1910) di Emma Goldman, contenuta nell’antologia Libertaria Vol. 1 (d editore). La definizione riportata è:
ANARCHIA: La filosofia di un nuovo ordine sociale basato sulla libertà, al di fuori di restrizioni imposte per mezzo di leggi; essa è la teoria che sostiene che tutte le forme di potere poggiano sulla violenza e sono perciò errate e dannose, come pure non necessarie.
La frase “la teoria che sostiene che tutte le forme di potere poggiano sulla violenza e sono perciò errate e dannose”, traduce in realtà: “the theory that all forms of government rest on violence, and are therefore wrong and harmful”. “Errate” qui è la traduzione di wrong che però, esattamente come l’italiano “sbagliato”, ha una connotazione etica e non logica, e questo è un primo punto fondamentale che distingue l’anarchismo “scientifico” ottocentesco dall’anarchismo politico in senso stretto. In secondo luogo, e ancora più grave, le “forme di potere” traducono in realtà la parola government, che significa governo, l’atto di governare (“governazione”), e non potere.
Quella che a prima vista sembra una definizione un po’ invecchiata (d’altronde Goldman la scrive nel 1910), in realtà è una sovrascrittura della traduzione fatta in modo decisamente schematico e inaccurato.1
Andando ancora più indietro nel tempo, possiamo leggere tra le righe di L’Anarchia (1891), dove Errico Malatesta definisce lo stato come “potere sociale astratto”, ed è nella parola astratto che si ritrova l’elemento dell’istituzionalizzazione di cui parleremo.
Ma perché tutta questa enfasi sulla parola potere? Perché oggi, quando la usiamo, non possiamo esimerci dal guardare dentro le mille pieghe del concetto complesso e per certi versi disturbante di potere. Dopo Foucault, ogni dottrina politica e disciplina sociale ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di eliminare i rapporti di potere.
C’è stato, questo è vero, nell’anarchismo teorico un cambiamento nel modo di concepire il potere. Il peso dello stato come matrice dei rapporti di potere si è andato ridimensionando. Se prima lo stato era un vertice politico da cui tutto il potere maligno “sgocciola” nella società, è intervenuta la teoria gramsciana dell’egemonia, per fare poi spazio a una visione ancora più sfaccettata che include differenti tipi di potere e dimensioni del suo esercizio, differenti luoghi in cui si genera e si rafforza, poteri generativi di soggettività e poteri che producono essi stessi le loro esperienze di resistenza.
Nella dinamica sociale e microsociale, è il potere a definire i nostri rapporti, ben più dello stato, tanto che esistono stratificazioni di potere anche senza stato (vd. Pierre Clastres, La società contro lo Stato) o all’interno di contesti di chiara dominazione come la schiavitù legale e il carcere (vd. James Scott, Dominio e arte della resistenza). In alcuni casi, questi rapporti di potere esistenti posso cristallizzarsi e strutturarsi in istituzioni sociali (lo stato, la chiesa) e infine naturalizzarsi in istituzioni cognitive (il patriarcato, per dirne una).
Il tema dell’istituzionalizzazione è esso stesso materia della teoria anarchica, come pure di altri approcci tra cui il neoistituzionalismo (utile dal punto di vista analitico ma del tutto spoliticizzato). L’anarchismo post-classico e l’anarchismo postmoderno (o post-anarchismo), insistono sull’istituzionalizzazione come processo che trasforma i rapporti di potere in potenziali dinamiche di dominio.
Il nostro paragone del titolo è semiserio ma accurato.
Dal momento che gli atti considerati sessuali comprendono una parte di rafforzamento performativo del dispositivo di genere, è inevitabile che ricalchino la gerarchia sociale e cognitiva dei generi. Il soggetto “femminilizzato” (facciamo un uso polemico del termine, tanto più che non necessariamente è una donna) si trova teoricamente in una posizione subordinata, dal punto di vista fisico perché inferiore, acquattata, tenuta a distanza, ma anche dal punto di vista simbolico, perché compie un gesto faticoso, vagamente sgradevole e legato al campo del sottostare, obbedire, anche in parte umiliante. Il soggetto che interpreta “il maschile”, intanto, si gode la situazione con una parziale passività meritata, mentre l’attenzione di tutt3 l3 partecipanti è focalizzata sull’elemento cardine della sua maschilità.
In realtà questa è una lettura testuale che non tiene conto di quello che succede nella relazione tra le due persone. Sul piano concreto, il piacere di chi interpreta “il maschile” è vincolato alla libertà e al consenso della persona “femminilizzata”, che può scegliere di interromperlo, ma anche di utilizzare la vulnerabilità dell’altro per ferirlo, fisicamente o simbolicamente. Anche sul piano sociale, la maschilità necessita del suo riconoscimento nei modi che i reciproci ruoli predeterminano, e a dare questo riconoscimento deve essere anche il soggetto “femminilizzato”. In questo senso non si può dire che nel pompino una parte abbia nettamente più potere dell’altra (se lo hai fatto, lo troverai meglio illustrato nella tua esperienza che nella nostra strana mentalizzazione).
A ben vedere: 1) il rapporto privato tra due persone non è mai solo tra due persone; e 2) al rapporto diadico partecipano dimensioni di potere ben più complesse e molteplici di quelle che individuiamo semplicemente applicando una chiave di lettura del “rispecchiamento” della cultura egemone nelle interazioni micro.
Ce lo diceva anche Foucault: il potere è onnipresente e in certo modo fluido, produce altri poteri, resistenze e contropoteri, il suo esercizio segue dinamiche proprie che dialogano con la norma, l’aspettativa, il ruolo, il linguaggio, lo spazio, l’habitus ecc. Ognunə di noi è socializzatə e ha imparato in modo più o meno consapevole a gestire queste dinamiche nella sua vita quotidiana. Un altro esempio banale: c’è un potere assoluto, di vita e di morte, nel rapporto tra unə neonatə e chi lə allatta, ma possiamo parlare di dominio? (è una domanda aperta)
Detto altrimenti, non sono solo il poliziotto e il medico a mettere in atto asimmetrie di potere, ma questo succede in ogni relazione, anche nella cooperazione. E ciò ovviamente non significa che tutto quanto sia una matrice di dominio, o che un pompino e lo stato nazione rappresentino ugualmente luoghi di coercizione.
In maniera un po’ analitica, Andrea Salvatore in Anarchismo. Teoria, pratica e storia descrive il dominio come: 1) il voler esercitare il controllo su altr3, e 2) il disporre dei mezzi necessari per rendere efficace tale imposizione. La sua definizione dell’anarchismo include “l’assenza di ogni forma coercitiva a carattere istituzionale” (corsivo suo), e cioè mette al centro la pratica istituzionale come istituto che mantiene la volontà e i mezzi della coercizione. Scrive:
Per «forma coercitiva a carattere istituzionale» si intende ogni forma di coercizione non costituitasi per semplice aggregazione di equivalenti quote individuali di potere – di per sé sempre singolarmente revocabili in modo consapevole, critico e responsabile da parte di individui liberi e uguali che regolano i loro conflitti di norma senza ricorrere alla forza 2 -, ma al contrario frutto di irriflesse, acritiche e anonime forme centralizzate di costrizione fondate sulla violenza, la gerarchia e la disuguaglianza tra chi esercita e chi subisce una simile forma di controllo; asimmetria a sua volta garantita e perpetuata tramite la minaccia almeno implicita del ricorso alla coercizione (in forme materiali e immateriali).
Per pensare la società anarchica, e in particolare per agire in ottica prefigurativa, è assolutamente necessario tenere presente che la società è fatta anche di potere, una relazione o una singola interazione sono piene di poteri. Noi non stiamo combattendo il potere, ma semmai stiamo abbandonando le relazioni basate sul dominio e vigilando su quelle che potrebbero diventarlo.
Note:
1 A proposito della legge, Goldman scrive man-made law, e non semplicemente law, ammettendo la cosiddetta “legge di natura”. Se proprio vogliamo tentare una storicizzazione dei concetti usati da Goldman proporremmo al curatore di iniziare da qui. Un’altra suggestione possibile è che Goldman utilizzi la parola man in man-made law con un certo distacco, che non è impossibile considerando la sua coscienza di genere, ma non abbiamo gli strumenti per dirlo, e quindi resterà una nostra speculazione.
2 C’è qui una contraddizione nella misura in cui lə neonatə di prima non può liberamente sottrarsi alla relazione di potere, revocando il consenso “in modo consapevole, critico e responsabile da parte di individui liberi e uguali”. Questa è la ragione per cui una politica dell’autonomia senza una politica dell’interdipendenza ci aiuta ben poco.
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