Mycena
Questo post nasce da una piccola suggestione incontrata in un libro di sociologia della salute. La salute comunemente intesa, e la sua istituzione di riferimento, la medicina, sono chiamate in causa sistematicamente quando trattiamo i corpi, ma solo quelli umani (e, vedremo, neanche tutti). La mia sfida personale è partire da un testo sulla salute per arrivare a tracciare una connessione tra corpi umani e non umani, usando strumenti della teoria sociale con finalità critiche.
Sull’esclusione delle donne dallo spazio pubblico si è scritto tanto – una per tuttə, con la tensione propositiva che tanto ammiro, Daniela Brogi ne Lo spazio delle donne. Dal punto di vista sociologico, escludere un oggetto (o un soggetto, se questa distinzione ci piace) è un gesto pregno di significato. La mia tesi in questo post è che l’armamentario teorico degli studi sociali su ciò-che-non-c’è possa essere ripreso nell’elaborazione politica con esiti niente affatto banali, e che per farlo occorre partire alla ricerca delle tracce lasciate nel mondo dalle non-cose e dalle non-persone.
Quando penso alle non-persone, la prima immagine che mi viene in mente sono alcune delle oltre 400mila donne che ogni giorno lavorano in Vietnam nelle industrie che forniscono la Nike. Ti risparmio i dettagli agghiaccianti dei loro salari e orari di lavoro. Il punto qui è un altro: proprio in quanto non-persone, esseri umani che hanno l’unico scopo di produrre un oggetto, l’essenza pubblica (economica) del loro esistere è un oggetto materiale, e cioè una scarpa da ginnastica.
Se apri la tua scarpiera (ma anche il tuo frigorifero) ti trovi di fronte a una rimozione: un’interruzione in quella catena di senso che da un contesto specifico fa emergere una cosa per addensamento di significati condivisi. In frigo, per dire, c’è un orinatoio di Duchamp che ti guarda dalla vaschetta di plastica, completamente isolato dalle cause che lo hanno reso possibile e dalle conseguenze che ha nel mondo. Le vite delle 400mila donne vietnamite non hanno niente a che fare con te, e difficilmente potrebbero, dato che non parlano neanche la tua lingua. E così il pollo morto, che quando era vivo non ha mai visto un paesaggio simile a quello in cui abiti; e la vaschetta di plastica che, volenti o nolenti, continuerà a esistere anche dopo aver assolto la sua rapida funzione antisettica e sarà finita in una discarica lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
A volte ci sentiamo esteriori, o superiori, a questa dinamica — per esempio nel mio frigorifero non ci sono polli morti. Ma non cambia davvero il punto: per produrre la semplice scena di me che mi alzo dalla sedia ergonomica, apro la scarpiera di compensato Ikea e guardo le mie Nike prese all’outlet, è stata necessaria una cesura nei processi di senso e nei legami sociali. Un taglio netto della pellicola cinematografica ha frammentato le storie che intorno agli oggetti si stavano svolgendo, ha disperso e reso inintelligibile il loro significato per chi le abita, ha reso impossibile una transizione dolce da un ambiente a un altro, e ha lasciato come unico testimone della perturbazione di questa molteplicità di contesti un paio di scarpe da ginnastica.
Un po’ di armamentario analitico sulle non-cose
Alcune coordinate per affrontare la nothingness, e cioè gli oggetti o pratiche sociali definiti negativamente come non-qualcosa, si trovano in un articolo di Susie Scott del 2018: A Sociology of Nothing: Understanding the Unmarked.
Scott, che si rifà all’interazionismo simbolico, fa coincidere le non-cose e le non-persone con il processo che le produce e le socializza come rispettivamente non-cose e non-persone. Così, sulla base del modo in cui si realizzano, propone una distinzione tra due tipi di non-cose: gli ‘acts of commission’ e gli ‘acts of omission’.
I primi sono atti veri e propri di negazione, sottrazione o silenzio, con valore dimostrativo (a sé o allɜ altrɜ), talvolta anche apertamente politico. Dalla castità allo sciopero, in questa categoria rientrano gli atti che passano attraverso la scelta di non fare qualcosa (choosing not to do something), il disimpegno o la non obbedienza a un ruolo sociale dominante che non ci corrisponde appieno, i melvilliani «preferirei di no». Sono atti che dimostrano una agency individuale del soggetto che li compie, che possono produrre non-identità che sono a tutti gli effetti delle identità definite negativamente sulla base di qualcosa che non sono, per esempio l’ex-alcolista, la zitella… Il niente, in questo senso must be accomplished, deve essere realizzato attivamente, ed eventualmente con un certo sforzo.
Se questi ‘acts of commission’ costituiscono il soggetto della fotografia, il fenomeno che attira l’attenzione perché devia dalla norma, allora Scott stacca la figura dallo sfondo e rimane con ciò che è meno appariscente tra le non-cose: gli ‘acts of omission’. Qui non c’è una scelta negativa, ma una non-scelta, una non partecipazione (necessaria o irriflessa) a qualcosa, un’azione che non è stata intrapresa perché non c’è stata l’idea o non si è presentata l’occasione o perché si è fallito nel prenderne parte. Questo tipo di situazioni possono sembrare frutto del caso, ma in realtà questo “caso” è ben situato nel contesto che ci circonda, e la forma e le caratteristiche di questo contesto, a un approccio sociologico, sono altrettanto interessanti (ma forse anche di più) delle motivazioni coscienti di un’non-azione. Così per esempio l’assenza di una donna dalle posizioni apicali di un’organizzazione si produce come un’assenza quasi casuale, una possibilità che non si è presentata, ma ben guardando dentro le condizioni che hanno prodotto questo non presentarsi, potremmo leggere qualcosa di più che non riguarda solo l’organizzazione stessa ma tutto il contesto a cui partecipa.
Quando compiamo ‘acts of omission’ siamo in qualche modo più passivɜ; finiamo automaticamente in una certa posizione o ruolo, senza che ne avessimo una chiara intenzione. Per Scott gli ‘acts of omission’ sono oggetti simbolici significativi (vd. Blumer, 1969). Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, oggetti definiti negativamente per mancanza o assenza di qualcosa, sono ad ogni modo dotati di senso dagli attori sociali che interagiscono con essi.
Quella che prima ho chiamato “l’interruzione della catena di senso” che separa la mia scarpiera dalle donne che lavorano nella manifattura vietnamita, si configura a tutti gli effetti come un ‘act of omission’, messo in atto in una dimensione sistemica che possiamo ricondurre storicamente alla rottura metabolica marxiana, l’istituzione dei binomi umano/ambiente e natura/cultura, per arrivare fino alle catene globali del valore e alla logistica contemporanea.
Il Peacock flower
Nel cercare unə protagonista per questa storia di donne e niente, ho seguito l’ottimo consiglio con cui Amitav Ghosh conclude La maledizione della noce moscata. È così che ho trovato un protagonista (o meglio diversi protagonisti) in una classe di non umani.
La Poinciana pulcherrima, o anche Caesalpinia Pulcherrima, è una pianta leguminosa originaria del Sudamerica, che produce il cosiddetto il peacock flower, o fiore dell’uccello del paradiso. Proprio come le sue denominazioni comuni, anche il suo nome scientifico non è univoco, e in generale la penetrazione di questa pianta nell’immaginario e nell’uso occidentali è scarsissima per non dire nulla. Una ragione è che, a differenza di altre leguminose, non è commestibile per gli esseri umani. Ma Nicoletta Bosco, riprendendo da Proctor e Schiebinger (2008), fa cenno a un’altra storia del peacock flower che lo lega direttamente alle pratiche di gestione collettiva dei corpi e della salute.
In Public Discourse and Health Policies, Bosco racconta l’incontro coloniale premoderno tra i modi di conoscenza gerarchici tipici delle autorità religiose del cosiddetto occidente, e le pratiche tradizionali di cura della persona e di gestione della malattia di indefiniti “altri”. Da questi incontri, alcuni “rimedi naturali” vengono esportati e incorporati nelle medicine occidentali, come il Catharanthus roseus o Pervinca del Madagascar, da cui si estraggono tutt’oggi due sostanze usate nella produzione di farmaci per la cura della leucemia. Altri “rimedi” vengono invece esclusi, così accade al peacock flower:
una pianta altamente politica, utilizzata nella lotta contro la schiavitù per tutto il XVIII secolo dalle donne schiave delle Indie Occidentali, che la usavano per abortire la prole che altrimenti sarebbe nata anch’essa in schiavitù.
(Schiebinger, 2008, p. 150 – traduzione mia)[1]
In particolare, dopo l’abolizione della tratta negli Stati Uniti nel 1807, la popolazione degli schiavi, e dunque il valore del loro lavoro, poteva essere incrementata solo attraverso la riproduzione: i padroni iniziarono a vedere la vita riproduttiva degli schiavi e delle schiave come un elemento di interesse economico, e allo stesso tempo un valore “naturale” comparabile con la produttività delle terre agricole. Le donne nere venivano descritte come “breeders” piuttosto che “mothers” (Schute, 2023).
Tra le modalità di resistenza al dominio, l’aborto è uno strumento che nega la produttività del lavoro, e allo stesso tempo rimarca il potere del soggetto in schiavitù di determinare la materialità e la natura del proprio corpo. Intorno alle pratiche dell’aborto si sviluppa per secoli un sapere condiviso, un “verbale segreto” delle soggettività oppresse (Scott, 2006).
Quello della conoscenza scientifica è un ambito da cui le donne sono state spesso a vario titolo congedate, come testimonia la questione della cosiddetta medicina di genere, e nel complesso il problema dell’assenza dei corpi femminili nell’ambito della ricerca farmacologica. Dall’altro lato, come testimonia il peacock flower, esistono e sono sempre esistite forme di “conoscenza delle donne” e in particolare delle donne assoggettate, in spazi di azione e di condivisione loro propri, spesso non legittimati dalla scienza ufficiale, e in alcuni casi si sono configurate allo stesso tempo come pratiche di resistenza, una infrapolitica nel senso di James Scott, particolarmente cruda.
Scrive Bosco, a proposito dell’assenza del peacock flower in occidente:
Nonostante l’aborto non fosse considerato illegale in Europa prima del diciannovesimo secolo, questa negazione (ignorance as lost realm or selective choice) si produce per un ampio insieme di circostanze tra le quali Schiebinger ricorda l’idea che la classe lavoratrice dovesse essere numerosa e produttiva, il fatto che le imprese coloniali fossero quasi esclusivamente appannaggio maschile e che i rimedi fossero soprattutto rivolti alle esigenze dei lavoratori maschi, prevalenti nel commercio, tra i coltivatori e nell’esercito. Come hanno documentato numerose studiose femministe, le pratiche di rimozione relative alla salute delle donne, al sapere riproduttivo, al corpo e alla sessualità che si basano sul “knowing that we do not know but not caring to know” (“sapere che non sappiamo ma non ci importa di sapere” – Tuana, 2006) sono proseguite fino ai giorni nostri.
Il non-sapere è anche naturalmente un gesto di potere esercitato da un sapere patriarcale portato avanti da esperti uomini, ai danni dei corpi femminilizzati (basti pensare alla scarsità scientifica su temi come l’intersessualità, l’orgasmo femminile e lo squirting, tutt’oggi al confine tra leggenda e realtà). Ma questo gesto di potere non va immaginato necessariamente come un act of commission, una presa di posizione puntuale e intenzionale in favore di un’ignoranza sul tema. Può essere, e spesso sembra proprio essere, il prodotto di ripetuti acts of omission che, come abbiamo detto, non avvengono per una specifica intenzione di rimuovere o negare, una produzione intenzionale di nothingness da parte di un potere localizzato (nel padrone schiavista, nel governo coloniale ecc.).
Gli acts of omission ci sembrano, dal punto di vista politico, del tutto inservibili perché è impossibile, in questi casi, attribuire una responsabilità (o una colpa) per l’azione o la mancata azione. Io sostengo invece, con Susie Scott, che è proprio la natura complessa e inafferrabile delle cause di questi atti a renderli tanto più eloquenti. L’eterogeneità, composita nello spazio e nel tempo, dei micro-gesti e micro-avvenimenti che, in ultima analisi, configurano l’omissione, testimonia di un sistema particolarmente esteso e variegato di cancellazione di bisogni e di corpi su più livelli.
Saperi e non-saperi. Agenti, non agenti e attanti
Dal punto di vista politico, l’omissione sistemica assume allora due possibili ruoli. Da un lato, e più classicamente, ci permette di individuare la presenza di un sistema regolativo implicito, che si manifesta con una mancanza significativa. Riprendendo l’esempio di prima, l’assenza di donne in determinate posizioni apicali può essere particolarmente significativa (anche in senso statistico), tanto da obbligarci a teorizzare un principio di regolazione non immediatamente evidente, ma diffuso a diversi livelli e scale dell’organizzazione. In secondo luogo, possiamo immaginare, con James Scott e altrɜ, che tra le maglie di un meccanismo regolativo così pervasivo, si nascondano anche delle pratiche collettive di resistenza all’oppressione, e soprattutto una produzione e diffusione di saperi controegemonici.
Il caso del peacock flower mette in luce anche un altro aspetto che merita di essere sottolineato in una prospettiva materialista. La resistenza dei corpi femminili colonizzati si manifesta con la produzione di saperi e l’attivazione di pratiche condivise. Per poter essere agenti, tuttavia, questi saperi devono riconoscere e incorporare un altro tipo di agentività, anch’essa omessa dal sapere coloniale, cioè quella non umana.
Nel modo in cui si configura il sapere-potere in un contesto premoderno, le conoscenze non sono gestite da figure esperte che si collocano al di fuori del “problema” (la malattia, il conflitto…), ma sono invece sono possedute, scambiate ed esercitate dagli stessi corpi situati che interrogano questi saperi con una finalità (in questo caso una finalità politica). La stessa produzione di saperi è uno strumento legittimo di lotta politica (come ci ricorda anche il femminismo dello speculum). Il rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza non è scisso da quello tra soggetto e oggetto dell’azione, e l’azione umana richiede il riconoscimento dell’azione non umana, o perlomeno una forma di fiducia nella capacità di agire del non umano, cioè nella capacità del peacock flower di provocare effettivamente un aborto. Questo riconoscimento (o fiducia) nell’azione non umana è escluso da quella cesura natura/cultura che ha reso possibile la modernità capitalista estrattiva.
Detto altrimenti, lo stesso tipo di cancellazione che si produce sui corpi femminili colonizzati da parte del colonizzatore, si produce anche sulla pianta da parte della medicina, in una lotta per il riconoscimento non tanto della validità ma, ancora prima, dell’esistenza di un’azione non-umana nelle cose umane.
Il peacock flower è un attante nel senso di Bruno Latour: un ente a cui non sono attribuite una volontà o “anima” umane, ma che ciononostante, in modi e per ragioni non sempre del tutto conoscibili, agisce[2]. Proprio come altri non umani (e storicamente anche alcuni umani) il fiore è considerato “materia morta” da un’epistemologia della separazione umano/ambiente che ha il potere politico di imporsi, e lo fa particolarmente in contesto coloniale (dove l’umano è rigorosamente l’uomo bianco).
Ecofemminismo dell’assenza
Ci sono almeno tre riflessioni che mi sembrano emergere dalla vicenda del peacock flower e che vale la pena esplicitare.
La prima è la necessità, già sollevata dalle teorie sui sistemi complessi e dai neo-materialismi (tra cui Jane Bennet in Materia vibrante), di una diversa concezione di causalità per fare spazio a tutta la complessità dell’azione umana e non umana. Occorre concepire un modello di causalità non meccanica e diretta ma sistemica, dove l’effetto è prodotto da un accumulo di condizioni e possibilità situate, e non in una singola causa determinabile univocamente.
La seconda riflessione torna a quelle catene di senso che il regime produttivo capitalista sembra aver interrotto nel passaggio dalla materia alla merce. È estremamente difficile mettersi nelle condizioni di “ascoltare” le storie degli oggetti, specie di quelli che consideriamo oggetti di consumo. E tuttavia è una lezione che sta diventando dirimente imparare, non solo per il nostro benessere e la nostra capacità di dare senso a quello che ci accade intorno, ma anche e forse soprattutto come strumento politico. Se riuscissimo a riallacciare collettivamente alcune di queste catene di senso avremmo in mano uno strumento politico forte, degli oggetti quotidiani che ci parlano di realtà molto lontane nello spazio. Attraverso le Nike abbiamo accesso a oggetti che sono quello che definiamo una merce, ma potrebbero anche essere un modo per conoscere e per agire collettivamente su una scala molto maggiore, per provare a sovvertire la logica del valore capitalista e immaginare una resistenza ad essa. È questo, io credo, un potente punto d’ingresso materiale e materialista nella riflessione che fino a pochi decenni fa era considerata centrale per i movimenti alterglobalisti.
E per finire, la terza riflessione è una messa in guardia da quelle stesse catene di senso che, nel darci una comprensione, rischiano di attribuirci anche una responsabilità a cui nessunə di noi può far fronte da solə. I peacock flower, così come altri oggetti e saperi minorizzati, sono in ogni luogo, in ognuna delle nostre azioni quotidiane, e imparare a riconoscere la loro assenza oltre il velo dell’omissione è fondamentale. Ma al tempo stesso bisogna vigilare su questa nuova forma di causalità che li fa vivere e li mette a tacere. Sarebbe un errore ricondurre ogni assenza a un act of commission perché da un lato ci responsabilizza troppo rispetto alla complessità dei sistemi a cui partecipiamo, o dall’altro lato troppo poco, privandoci dell’agentività necessaria a cambiare questi sistemi, e immobilizzandoci per la paura che ogni gesti politico intrapreso ricada in una dinamica violenta di cui non abbiamo consapevolezza.
Come dicevo all’inizio, una via per l’ecofemminismo è quella di ricercare nel mondo quelle tracce che non-cose e non-persone finiscono per lasciare. Guardare a ciò che inconsapevolemnte escludiamo apre a visioni di sistemi molto complessi ed estesi, tanto nel contesto coloniale, quanto nel mondo a noi contemporaneo. All’interno di questi sistemi si trovano gli effetti delle diverse matrici di disuguaglianza, ma anche possibili modalità di resistenza. Da qui politicamente ripartire.
Note e bibliografia
- Bennet J., Materia vibrante. Un’ecologia politica delle cose, Timeo, 2023. Link
- Blumer H., Symbolic Interactionism. Perspective and Method, University of California Press, 1969. File
- Bosco N., Public Discourse and Health Policies, 2022, Routledge, cap. 4.
- Latour B., La sfida di Gaia, Meltemi Editore, 2020, Link
- Perrin L. M., «Resisting Reproduction: Reconsidering Slave Contraception in the Old South», J. Am. Stud., vol. 35, fasc. 02, ago. 2001, doi: 10.1017/S0021875801006612.
- Scott J., Il dominio e l’arte della resistenza, Eleuthera, 2006. Link
- Scott S., A Sociology of Nothing: Understanding the Unmarked. Sociology. 2018; 52, pp. 3-19.
- Proctor R. N., Schiebinger L. (eds.), Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance. Stanford: Stanford University Press, 2008. Pp. viii+298. ISBN 978-0-8047-5901-4. |n The British Journal for the History of Science | Cambridge Core
- Schute M., «“I Was as Cool as I Now Am”: Abortion and Infanticide as Methods of Resistance», in Turning Wounds into Wisdom and Pain into Power: Female Slave Resistance against Bodily Sufferings in Antebellum America (2023). Link
- Per una rassegna su ignoranza e agnotologia
- Notes on post-colonial plants: https://reincantamentox.substack.com/p/drop-6-notes-on-post-colonial-plants
[1] Questo è un passaggio difficile da leggere con distacco, ed è in casi come questi che riemerge il famoso dubbio sulla separazione tra conoscenza e politica, dubbio che è in giro fin dai tempi di Weber, ma questo non vuol dire che per me sia meno cogente.
[2] Il primo passo è considerare il peacock flower come un attante, ma il secondo non è “sollevarlo” ulteriormente al livello umano quanto “abbassare” l’umano al livello dell’attante. La volontà esiste concretamente, e viene attribuita a vari esseri viventi mentre l’anima è qualcosa di superiore ontologicamente, che precede e rende possibile la separazione tra umano e non-umano. Rifarsi a questo concetto di anima segna già di per sé una gerarchia tra quello che ha dignità e quello che ne ha meno.
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