Questo libro è marxista, e da buon marxista ci riporta alla vecchia questione della natura in Marx. Una volta abbiamo provato ad affrontarla attraverso una lettura di Marx di Judith Butler, ma abbiamo fallito miseramente, ragione per cui non troverai alcuna nota in merito nel giardino, ma comunque ti consigliamo le sue Due letture del giovane Marx.
Questo è anche un libro che incrocia moltissimi dei temi a cui spesso torniamo (da cui l’affollamento di tag). Considerata l’una e l’altra cosa, speriamo comunque di riuscire ad essere chiar3. Non sarà facile.
Conto la “tesi dell’incatenamento” (sì, vale anche per il Solarpunk…)
Il primo punto che raccogliamo è che la tecnologia, sia essa materiale come il trattore o sociale come le leggi, non è indipendente dal contesto storico che la porta alla luce. Jasper Bernes, riprendendo da G.A. Cohen, chiama “tesi dell’incatenamento” quell’idea secondo cui, invece, le tecnologie che sotto il capitalismo sono strumenti di dominio e di sfruttamento, potrebbero essere un giorno “liberate” e riappropriate da una società post-rivoluzionaria.
Già Ivan Illich ci metteva in guardia da questa visione, evidenziando quella capacità che le tecnologie hanno di incorporare le strutture sociali da cui emergono e in cui si rendono utili o anche necessarie. Della stessa idea anche Bernes, che richiama il concetto di path-dependency.
Questa è la lezione controrivoluzionaria che il capitalismo sussurra continuamente alle orecchie degli aspiranti ribelli; le parole che esso utilizza sono la disposizione tecnica dei mezzi di produzione, l’organizzazione della terra e delle forze naturali.
Qui entra in gioco il cibo. La tesi di fondo dei due articoli nel libro, tanto banale quanto complessa nelle sue conseguenze, è che una rivoluzione che non è in grado di nutrie le persone a partire dal mattino successivo al suo avvento è una rivoluzione destinata a fallire. La seconda tesi è che non possiamo affidarci alle forze materiali e sociali che il capitalismo ha mobilitato per noi per mettere fine al capitalismo. L’agricoltura industriale, la logistica, la grande distribuzione organizzata e gli OGM non possono essere i nostri strumenti rivoluzionari.
Per una rivoluzione serve ripartire dal materialismo, dai più basilari mezzi di sussistenza come le patate e l’acqua potabile. È necessario pensare a nuovi mezzi tecnici che siano compatibili con il comunismo a venire, o rassegnarsi a non poterlo davvero mettere in pratica. È un punto da cui non si può prescindere. Ma c’è anche un altro discorso a favore di un ritorno al materialismo, che parla più allo spirito che allo stomaco.
Il sistema sta negli occhi di chi guarda 1
John Clegg e Rob Lucas, nel primo dei due saggi, mettono a fuoco un problema che ci sembra comune a molti differenti anticapitalismi, dai più lifestyle, fino a quel compagno marxista che prese parola all’incontro col Comitato Invisibile. Una nuova malattia dell’immaginario, che non è il Realismo Capitalista ma forse gli fa da spalla.
I tentativi di immaginare una transizione verso un mondo post-capitalista tendono necessariamente a finire mistificati da modelli di pensiero eccessivamente pietrificati. A costo di sembrare semplicistici, sosteniamo che ciò sia dovuto al fatto di concepire il mondo attuale come una totalità indeterminata, nella cui definizione può essere incluso tutto e il contrario di tutto. Un presente capitalistico di scala e portata indeterminate genera quindi una nozione ipotetica di rivoluzione – ovvero di superamento di tutto ciò che potrebbe essere incluso in questa totalità – altrettanto indeterminata.
Detto altrimenti, rischiamo di scivolare in un immaginario sterile quando non sappiamo dire con chiarezza, in primo luogo, cosa dev’essere superato, cos’è che fa parte del capitalismo, del “sistema” e cosa no. Proprio come la tesi dell’incatenamento, questo tema è un pungolo e una suggestione per chi pratica, anche solo come gioco intellettuale, l’immaginazione utopica, o addirittura la prefigurazione come pratica politica.
Cercare di superare un sistema totale e totalizzante, onnicomprensivo al punto da crearsi al suo interno gli spazi per la sua stessa critica, è un’opera politica e organizzativa immane.
La soluzione non è in una razionalità assoluta che cerchi di pianificare la totalità dei bisogni sociali post-rivoluzionari, con la stessa efficienza ed efficacia dei sistemi logistici e delle catene del valore attuali ma in chiave anti-(o non-)capitalista. La proposta è di porsi fin da subito alcuni obiettivi concreti, da declinare (e magari sperimentare) già da ora nelle pratiche e organizzazioni in-vista rivoluzionaria.
Quindi cos’è il materialismo?
Naturalmente lo chiediamo a Marx. Partiamo da quello che ci sembra il più grande ostacolo alla comprensione del materialismo marxiano, cioè la filosofia del liceo. Il materialismo storico, ci hanno insegnato a dire, si dà perché Marx vede nell’economia, e non ad esempio nello Spirito, il motore della Storia.
Oggi da ecologist3 ci vien da chiedere: e in che modo l’economia (in particolare quella che si racconta con il lessico della finanza) sarebbe qualcosa di materiale?
Ci sono almeno due risposte. La prima, e forse più semplice da immaginare, guarda a una dimensione macro e in ottica diacronica, ma con una postura più, per così dire, quantitativa. Questa prospettiva postula che quello che chiamiamo economia sia oggi il più grande motore di materia al mondo, il più grande di sempre. Se non ci fosse il capitalismo, e prima altri modi di produzione, la quantità di materia che si muove e che viene trasformata su questo pianeta sarebbe sensibilmente minore (non potremmo parlare per esempio di Antropocene). L’economia è il rapporto sociale che più di tutti al mondo ha conseguenze materiali.
Poi c’è la risposta di Marx, che sceglie di microfondare questa spiegazione chiamando in causa la vita quotidiana di ognun3 di noi. Marx “sociologo” riconosce che la struttura delle relazioni economiche ricade nell’ambito della società, non in quello della materia. E tuttavia nell’attività economica di ciasun3 di noi c’è quanto di più materiale, e cioè il lavoro. Il lavoro (agricolo e industriale) per definizione trasforma qualcosa in qualcos’altro, modifica la materia, e lo fa per ragioni sociali (la legge della domanda e dell’offerta, per dirne solo una). In Marx il lavoro è il canale principale delle relazioni tra società e materia, tra umano e natura, il modo principale in cui agiamo e modifichiamo il mondo.
Calarsi nel materialismo, quindi, non vuol dire esimersi dagli aspetti sociali del’attuale modo di produzione, né analizzarne solo i processi macro. Non stiamo cercando di spiegare la società con l’economia, ma stiamo usando una lente radicalmente diversa, in cui ogni azione umana, inclusa quella sociale, è da ricondurre alla sua base materiale.2
Materialismo e Metabolismo
La base materiale della società è il cibo che, nella lettura marxiana, fa da contraltare metabolico alla pratica di cagare nel campo che coltiviamo.
Il metabolismo comprende infatti tutti quegli scambi con l’ambiente che mantengono una forma di vita – vale per i singoli esseri viventi, ma in senso figurato anche per le collettività, dalle colonie batteriche a ecosistemi e società. Il cibo è parte di un processo che, attraverso l’*humus* del terreno, le piante e la nostra cucina ci permette di rimanere in vita (e come noi gli altri esseri nell’ecosistema). Ma il processo si chiude solo se, una volta consumati, i nutrienti che vengono dal cibo ritornano alla terra e permettono al processo di rinnovarsi.
Oggi, la maggior parte del cibo che consumiamo è prodotto in altri luoghi3, spesso in altri continenti, senza che esistano pari e contrari flussi di materia organica. Questo è ciò che con Marx chiamiamo frattura metabolica: l’interruzione degli equilibri dei flussi di materia, ed è uno dei fattori da cui dipende l’attuale crisi ecologica.
Questa frattura dei processi materiali è però da ricondurre a ragioni sociali, come la volontà di mantenere la produzione di valore capitalista, possibile solo attraverso la concentrazione delle forze produttive nelle città. Raggruppare enormi masse di persone per svolgere lavoro industriale o per mantenere i flussi di valore sarebbe impossibile senza l’estrazione di materia da certi territori e l’accumulo di scarti in altri. E al tempo stesso questa estrazione necessita delle tecnologie proprie della rivoluzione agricola: i fertilizzanti chimici, le monoculture, i grandi macchinari e gli OGM resistenti ai diserbanti.
In una serie di catastrofi a domino (queste sì, concatenate tra loro), tutte le tecnologie usate per sostenere l’attuale sistema sono a loro volta basate su altre dinamiche di sfruttamento e inquinamento – come i combustibili fossili necessari per la produzione di fertilizzanti chimici – che replicano su ogni scala la frattura metabolica rendendo il collasso di tutto il processo sempre più inevitabile.
Ma non scadiamo nel catastrofismo. Una lettura materiale serve a dare un senso all’attuale crisi, ma soprattutto può indicarci una possibile via per uscirne. Una lente materialista serve a circoscrivere il problema e a darci un campo di azione più preciso. La frattura metabolica ci rende evidente la necessità di superare il capitalismo, ma il capitalismo è anche il modo in cui produciamo il cibo. Al tempo stesso, vista l’interdipendenza tra sfera materiale e sociale, possiamo invertire il processo e, cambiando l’attuale modo di produzione del cibo, superare il capitalismo come sistema economico e scongiurare buona parte delle crisi che viviamo. Questo è il modo in cui il materialismo ci permette di uscire dalla vaghezza delle nostre lotte, e rifondare le pratiche politiche a partire dal qui-e-ora.
Alcune idee per una Rivoluzione che funzioni (se ci piace)
Per concludere, andiamo più nello specifico e seguiamo Clegg, Lucas e Bernes nelle loro proposte su come fare questo comunismo un po’ utopico.
Autoproduzione di cibo
Può sembrare l’aspetto più ovvio, ma come abbiamo detto nessuna rivluzione può essere efficace se non dà da mangiare all3 rivoluzionari3. Questo vuol dire iniziare ben prima ad autoprodurre cibo, o almeno prepararsi a riconvertire velocemente i terreni per la produzione di cibo, invece di puntare all’aumento della produttività in settori economicamente più vantaggiosi, per poi acquisire (o requisire) cibo prodotto altrove. La critica è ad un certo internazionalismo, che finisce per mantenere le nazioni, pur socialiste, come suo presupposto.
Un territorio liberato non dovrebbe sostentarsi tramite lo scambio internazionale o il mercato, poiché entrambi presuppongono una produzione industriale per l’esportazione – e conseguente frattura metabolica. Questo non è un diktat assoluto, e sarebbe difficile evitare una qualche coesistenza di tecnologie pre- e post-rivoluzionarie, ma guardando all’obiettivo di una organizzazione materiale pienamente rivoluzionaria.
Superamento dell’antagonismo tra città e campagna
Il materialismo, come abbiamo detto, è anche nella cultura, e quindi un punto (ripreso nientedimeno che dal Manifesto è dedicato al superamento della divisione tra città e campagna.
Le attività produttive e di sussistenza devono spazializzarsi e distribuirsi in modo nuovo, ma anche le attività non produttive. Già secondo August Bebel (socialista tedesco del primo Novecento), il proletariato esulando dalle città avrebbe portato nelle campagne «i suoi musei, i suoi teatri, le sale di concerto, quelli di lettura, le biblioteche, i circoli, gli istituti di educazione, ecc.».
Di più, i modelli di vita e l’immaginario rispetto ai territori devono liberarsi dalla dicotomia che divide il mondo tra centri e periferie. Dobbiamo immaginare un comunismo in cui non sussistano zone a bassa e ad alta densità di popolazione, questo renderà tutti i territori indipendenti dal punto di vista politico e materiale.
Rifiuto della pianificazione centrale
Sia autoproduzione sia redistribuzione della popolazione potrebbero, almeno in teoria, essere pianificati centralmente – ma così facendo si commetterebbe un grave errore. La pianificazione presuppone una divisione di compiti che, in ultima istanza, esime alcune persone dallo svolgimento di attività necessarie, rendendole però dipendenti dal potere di allocare le risorse. Questa situazione può facilmente scivolare in nuove forme di produzione eterodiretta, riproponendo logiche statali, utilizzando la dipendenza materiale come strumento di coercizione, con tutto il corollario metabolico di cui sopra.
La soluzione non è un’autarchia locale o una costellazione di piccoli produttori; la strada è quella della massima distribuzione del potere decisionale, in modo da permettere una continua riconfigurazione della produzione e dell’organizzazione, interrompendo possibili processi di istituzionalizzazione.
Materialmente, questo richiede che si diano due condizioni concrete, presenti sempre e per ciascunə: l’accesso incondizionato ai beni di prima necessità e la libertà di movimento. La prima previene lo sfruttamento materiale e qualsiasi logica privatistica o di mercato; la seconda previene pratiche coercitive di natura sociale, garantendo la possibilità di cambiare gruppo e sfera di organizzazione.
Coltivare la libertà
Questo è forse il punto più sottile, ma da anarchich3 ne sentiamo la necessità. Siamo abituat3 a narrazioni rivoluzionarie che ci promettono progressi inimmaginati e lo sviluppo di potenze umane mai viste prima. Futuri totalmente automatizzati o società di artist3 e filosof3 di fronte a cui una rivoluzione “agraria” può sembrare poco desiderabile.
Un orizzonte rivoluzionario che, come dice Bernes, «si troverà a dover fare i conti con la questione del riscaldamento globale, dell’innalzamento del livello dei mari, dell’acidificazione degli oceani, della desertificazione strisciante, dell’esaurimento delle riserve idriche, e degli spostamenti umani che ne conseguiranno». Sembra già meno accattivante. Anche perché, come dicono Clegg e Lucas, «se la sopravvivenza sarà tutto ciò che il comunismo sarà in grado di offrire, allora esso stesso non sopravviverà».
La produzione di cibo deve passare da essere qualcosa di necessario a essere una pratica di libertà, un modo per costruire il nostro posto nel metabolismo del luogo in cui abitiamo. La libertà non si trova nella falsa promessa della modernità di liberarci dai flussi materiali, ma nel poter partecipare attivamente e con desiderio alla nostra vita materiale e situata: una vita fatta di decisioni politiche, arte e socialità, tecnologie ed ecosistemi – e cibo.
1. Ci è sembrato adeguato, in questo contesto, titolare prendendo in prestito la frase di un professore universitario che, a tutt’altro proposito, ha scritto: “As for the beauty, the system is in the eye of the beholder”.
2. Con questo non intendiamo proporre una ri-essenzializzazione degli aspetti sociali e culturalmente connotati della nostra vita in comune. Un punto complesso, ma straordinariamente importante, sta nell’accettare che la complessità dell’esistente si spinge e si spingerà sempre ben al di là della nostra comprensione dei processi. La scienza dovrebbe essere capaci di situarsi entro la critica dei concetti che pure per necessità utilizza. Per quanto in alcuni casi sembri utile, non ci dimentichiamo che l’essenzialismo biologista, senza una profonda comprensione della genealogia e del portato politico delle categorie che istituisce, è un eccellente strumento di produzione delle disuguaglianze nelle mani di chi si fa portavoce del vero dei saperi sulla materialità.
3. Questo viene misurato attraverso il concetto di “miglia alimentari” (food miles in letteratura scientifica). Ad esempio, secondo un sito basato sulla fornitura di dati dalle etichette da parte dell3 utenti, un prodotto medio venduto in Italia ha viaggiato più di 3300 km.
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