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C’è stata la lotta di classe.
Ci sono stati i picchetti, ci sono stati i blocchi della produzione, ci sono stati i consigli operai, c’è stato il rifiuto del lavoro e l’odio per il padronato. C’è stata la Magneti Marelli nel ’42, c’è stata la Michelin e Lancia nel ’62, c’è stata la rivolta di Corso Traiano nel ’69. Gliel’abbiamo fatta vedere brutta ai capitalisti, hanno avuto paura e noi abbiamo vinto.
Ci sono state le discussioni con i compagni e le compagne di reparto, le serate al dopolavoro davanti agli amari. Si parlava dell’Unione Sovietica e dell’Ungheria, ma soprattutto del salario, sempre troppo basso. Non ci serviva la politica, ci serviva prendere tutto quello che potevamo e lasciare solo quello che non potevamo tenere.
Abbiamo odiato i capitalisti, li abbiamo odiati per nome e cognome. Gli Agnelli e i Pirelli ogni tanto non li vedevi solo in foto, ma in faccia, e ci si riconosceva. Sapevano che gliel’avremmo fatta vedere brutta, che ci serviva solo l’occasione, e noi sapevamo che loro non si sarebbero lasciati mettere nel sacco tanto facilmente. Questo giro avevamo ottenuto le 40 ore settimanali, ma gliele avevamo strappate dalle mani. Non potevamo e non volevamo fare passi indietro, si poteva solo volere di più. Volevamo tutto!
Alcune teste d’uovo che scrivevano troppo difficile l’hanno visto, l’hanno capito che noi si poteva fare cose grandi. Abbiamo parlato e abbiamo pensato cosa si poteva fare, come ci si doveva organizzare, e se il PCI e i sindacati non ci seguivano peggio per loro. La lotta non la facevamo in nome di nessuno, la facevamo perché volevamo vivere meglio e non far ingrassare i padroni. Ci si riconosceva in qualche modo, si vedeva la politica che si faceva tanto negli stabilimenti quanto sulle riviste. Si parlava davanti ai cancelli, ogni tanto qualche volantino uscito bene lo si leggeva volentieri, ogni tanto un numero di «classe operaia» ne diceva delle giuste. Poi ti accorgevi che quelli con cui parlavi ai cancelli o che vedevi in piazza erano gli stessi che scrivevano sul giornale.
Ci si organizzava, certo, perché quando lavori nel reparto carrozzerie e ti fermi mandi gambe all’aria tutta la catena di montaggio. Ti voglio vedere poi a misurare i tempi. Alcuni di noi avevano fatto la Resistenza, e questo si vedeva. Ma tanti avevano solo conosciuto la fabbrica, i turni e la paga da fame. Ci si organizzava nei sindacati, ma anche quelli dovevano fare attenzione a non sgarrare: piazza Statuto ce la ricordavamo tutti. Si diceva anche che se si organizzava un partito si poteva fare anche di più, diventare noi quelli forti e costringere i padroni a difendersi. Se quel partito potesse essere il PCI non ci abbiamo mai creduto troppo, ma che insieme si potesse puntare più in alto sì.
L’hanno capito anche quegli studenti che sono scesi in piazza nel ’68 che senza tute blu non si andava da nessuna parte. Simpatici, per carità, ma troppo, troppo intellettuali, con la testa tra le nuvole. Quando nel ’69 si scese in piazza insieme, lì sì che si sono fatte cose grandi. Forse le ultime cose davvero grandi, ma ne è valsa la pena.
C’è stato tutto questo, c’è stata davvero la lotta di classe. La lotta che non sai come va a finire, ma di cui ricordi le vittorie, che se guardi indietro sono più delle sconfitte. C’è stato un partito, c’è stato chi lo voleva cambiare, ci sono stati gli operai e gli intellettuali, i sindacati e i socialisti cattolici. Ci sono stati i reparti di Mirafiori in cui qualche studente, entrando, piangeva. C’è stata la possibilità di continuare a vincere, di cambiare tutto. O forse no? Ma sì, certo che c’è stata.
[…] la lotta operaia ha fatto storia, ma non ha creato mito. E una storia senza mito non passa, nel senso che non prende corpo nella coscienza delle masse, per diventare alimento di altre più decisive lotte.
Questo testo emerge dalla lettura del libro di Tronti, una delle figure chiave dell’operaismo italiano, che nel 2008 riflette su cos’è stata quell’esperienza di pensiero e lotta. Operaismo, una parola che anche per Tronti porta una certa nostalgia, col sapore amaro della sconfitta della classe operaia di cui bisogna prendere atto, infatti se «non si parte da questo dato di verità, non si capisce niente, per altro verso, proprio del Novecento».
Non mi voglio soffermare sugli aspetti teorici dell’operaismo italiano, che pure ho scoperto essere, inconsapevolmente, un tassello fondamentale del mio stesso pensiero politico – per quanto in forma di prosa, ho cercato di raccoglierli o accennarli nel testo. Non lo faccio perché anche nelle parole di Tronti l’operaismo è stato sì teoria – una teoria fondamentalmente realista e inserita nel suo tempo, e quindi non più attuale – ma anche una visione del mondo, una tensione alla rivoluzione, uno studio con l’obiettivo di «rivolgere ciò che è, possibilmente nel suo contrario».
L’aspetto più fondamentale dell’operaismo, visto dal deserto del presente antirivoluzionario, è secondo me la convinzione che si può sovvertire un sistema tanto grande quanto il capitalismo. Che c’è davvero la possibilità di farlo, basta parlare con le persone giuste, saper porre le giuste domande e saper accettare le risposte che si ricevono. Che tutte le energie necessarie per la rivoluzione sono già qui, forse in alcuni punti più che in altri, ma che insieme, con tanto lavoro manuale, intellettuale e soprattutto umano, si può farlo. Senza forzare la mano o imporre un modello, ma facendo germogliare quei semi che, se forse oggi sono schiacciati da uno strato di neve molto spesso, possono fiorire.
In calce riporto alcune risorse sull’operaismo:
- Un sito che raccoglie interviste a molti degli esponenti dell’operaismo e descrive brevemente i giornali e le riviste in cui scrivevano.
- Versioni digitali di «Quaderni Rossi», rivista fondante dell’operaismo.
- L’archivio completo di «classe operaia», con un’introduzione di Tronti.
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