Posso scegliere cosa sono, posso scegliere il mio sesso, la mia nazionalità e il mio nome, il luogo di nascita, semplicemente aprendo la bocca. Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle.
L’accento va sulla parola scegliere. Bujar, protagonista de Le transizioni di Pajtim Statovci, insiste sul concetto di scelta, di riguadagnare la propria libertà non come libertà di vivere (o sopravvivere) ma come libertà di scegliere e autodeterminarsi. Non è il voler semplicemente essere quello che si è, ma il voler diventare altro: la transizione e la migrazione come scelta. Di questo abbiamo bisogno.
Il libro
Bujar ha ventidue anni, è nato a Tirana, e nel 1991 ha deciso di intraprendere un viaggio insieme al suo migliore amico per attraversare l’Adriatico e raggiungere le coste italiane. Quello che i due ragazzi non sanno è che l’Europa nutre un profondo disprezzo per le persone albanesi, un disprezzo che cozza con quell’antico orgoglio nazionale che Bujar aveva appreso dai miti della sua famiglia.
Quando arriva in Italia, per prima cosa Bujar brucia le navi in porto, abbandona ogni legame con il passato, perfino i ricordi. Ma scopre presto che questo nuovo vecchio-mondo ha poco da offrire a quellȝ come lui. Prevale l’amarezza, e ricomincia il viaggio.
Berlino, Madrid, New York, Helsinki — dove Bujar può di volta in volta ricominciare la sua vita da zero, reinventarsi come uno studente italiano, una ragazza spagnola o una giovane in fuga dalla guerra in Bosnia. A ogni tappa conosce persone e coltiva interessi. Riracconta sé stesso, prendendo a prestito le vite degli altri e facendole proprie, diventa protagonista delle loro storie, le incarna e le vive sulla sua pelle come un attore stanislavskiano.
Il ballo dei generi
Come si può immaginare, l’esperienza transgender di Bujar ha radici molto diverse dalla maggior parte della narrazione trans* occidentale. Non ha nulla a che spartire con lȝ cosiddettȝ “natȝ nel corpo sbagliato”, ma rientra invece in una più ampia sperimentazione di definizione di sé. L’esperienza trans* non è un accidente di natura biologica o psichica o magica, ma è parte di un percorso di autoconoscenza che mette da parte la schematica delle identità precostituite a favore di un lavoro creativo autenticamente queer.
Quello che Bujar mette sul tavolo non è la legittimità dell’identificazione con un genere diverso da quello assegnato alla nascita, ma la possibilità di una identificazione multipla, non-binaria per definizione, in quanto radicalmente instabile e difficilmente conciliabile con i vincoli socioculturali e legali del nostro mondo.
Il soggetto trans* di Statovci sta vivendo la scoperta di sé in una dimensione laica e incarnata, un’esperienza umana che, sembra suggerire, dall’alba dei tempi viene soffocata da costrutti identitari di ogni sorta (nazionali, razziali, di genere, classe…).
Chi ha detto che scegliere qualcosa è rinunciare al resto?
Laica è l’esperienza di Bujar in un duplice senso: è, per quanto possibile, scevra di schemi precostituiti, fino al limite di far intendere alcuni aspetti del personaggio senza volerli nominare, sottraendoli cioè alle ulteriori connotazioni del linguaggio. Ma laica anche come esperienza dell’abbandono. Bujar, esso stesso abbandonatore seriale di mondi e di affetti, ha vissuto in prima persona l’abbandono come conseguenza della scelta. L’abbandono di “casa” come luogo con un valore identitario, l’abbandono dei miti del popolo albanese, e in ultimo l’abbandono del concetto stesso di appartenenza identitaria. Perdere il proprio passato, perdere Dio, e perdere la parola che denomina il proprio posto nel mondo e separa ciò che siamo da ciò che non siamo.
Bujar chiede a gran voce una legittimazione in quanto persona non-personaggio, anti-archetipo, possibile solo nel contesto di una letteratura della complessità (la complessità è onnipresente in Le transizioni). E però questo tipo di narrazione si scontra con la necessità di una definizione delle identità e delle loro rivendicazioni politiche. L’attivismo e la teoria queer sono fondamentali, ma per accendere il discorso pubblico occorre disporre delle parole per circoscrivere ciò di cui si sta parlando, anche e forse soprattutto se usate in prima persona. Occorre «Allargare,» scrive Claudia Durastanti a proposito della wokeness, «la platea di chi disegna le regole, auspicando che queste presenze siano portatrici di idee di giustizia sociale.»
Statovci sfrutta appieno le possibilità del romanzo, mettendo in scena un soggetto politico classificabile sì come “trans*” e “migrante”, ma non riducibile a queste classificazioni: un soggetto che moltiplica le istanze, le estende nel tempo della sua vita e nello spazio dei suoi viaggi. E così, categorie già decostuite o decostruibili, si fondono dietro alla pretesa di Bujar di un riconoscimento in quanto persona, nella sua scelta di autodeterminarsi.
Di questo abbiamo bisogno.
Note
Bujar: Per Bujar la traduzione italiana a cura di Nicola Rainò usa pronomi maschili. Ci sono diversi motivi per cui preferirei usare il neutro, a partire dal fatto che la grammatica svedese non prevede flessioni di genere, ma è possibile che la scelta sia stata discussa con l’autore, perciò mi attengo al maschile.
trans*: Uso trans* con l’asterisco per tenere idealmente presente la moltitudine di possibili esperienze riconducibili alla parola trans e transgender.
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