Biocarburanti: la terra, il capitale e tutto il resto

Elementi di Ecologia Politica Pt. 2: Credevamo che la transizione energetica sarebbe stata difficile, ma poi è arrivato Eni…

12/07/2024
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Nel precedente articolo di questa neonata aiuola del giardino abbiamo introdotto il tema dell’ecologia politica. Abbiamo visto come aggiungere una dimensione politica all’ecologia non è tanto politicizzare qualcosa di obiettivo, quanto comprenderne la complessità, riconoscendo il peso delle disuguaglianze economiche e politiche nella crisi ambientale.

In questo secondo articolo volgiamo lo sguardo da quelle che normalmente chiamiamo “cause” del cambiamento climatico (la CO2 emessa in atmosfera) alle “soluzioni” (evitare di emettere CO2). Da patriotɜ quali siamo, lo facciamo partendo da una storia di eccellenza tutta italiana: i biocarburanti.

L’Italia e i biocarburanti: una coppia che dura

Nell’ottobre 2022 viene approvato, come parte del pacchetto “Fit for 55”, un accordo provvisorio sull’obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 di auto e veicoli commerciali leggeri pari al 100% – essenzialmente dal 2035 non potranno essere immatricolati nuovi veicoli che emettono anidride carbonica.

L’accordo, nonostante non impedisca di guidare auto a combustione interna dopo il 2035, lascia i veicoli elettrici come unica soluzione per la mobilità privata. Prima della ratifica da parte del Consiglio Europeo, che è normalmente un mero procedimento burocratico, i governi di Italia e Germania si mettono di mezzo con due richieste molto specifiche. Chiedono la “neutralità tecnologica”, nelle parole di Giorgia Meloni; «non chiudere a priori il percorso verso tecnologie pulite diverse dall’elettrico». Questo significherebbe escludere dal divieto le auto alimentate con due tipi di carburante: gli e-fuels (lato tedesco) e i biocarburanti (lato italiano).

La prova di forza funzionerà solo per il governo tedesco, che vedrà accolta la sua richiesta, e l’accordo verrà finalmente ratificato nel marzo 2023 (con l’astensione italiana, romena e bulgara e il voto contrario della Polonia). Nonostante tutto, l’Italia ancora spera di averla vinta: «ci adopereremo, nell’ambito delle procedure di approvazione degli atti legislativi indicati dalla Commissione Europea, a far considerare anche i biocarburanti tra i combustibili neutri in termini di CO2» dice il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin.

Neanche a dirlo, l’Italia non è interessata alla tecnologia dei biocarburanti per amore dell’ambiente ma per il solito, prevedibile cane a sei zampe1. Eni, campione del greenwashing2, si vanta molto dei suoi biocarburanti e dell’abbattimento delle emissioni che questi portano già dal 2016, e ha due bioraffinerie a Porto Marghera e Gela3. Questi due stabilimenti, secondo il Biofuels Barometer 2020 dell’EurObserv’ER, portano l’Italia ad essere la seconda produttrice di biodiesel in Europa; non stupisce quindi che l’Italia sia sesta per consumo di biocarburanti per il trasporto e prima per numero di auto a GPL prodotto da biomasse nell’UE4. Infine, l’Italia è l’unico paese europeo a far parte della Global Biofuel Alliance, annunciata nel G20 di Nuova Delhi nel settembre 2023.

Guardare il pelo nel biodiesel

Ma cosa sono i biocarburanti per cui lo stato si spende così tanto? Perché vengono messi al centro (non solo dall’Italia, è giusto dirlo) della “transizione energetica”?

Partiamo dalla prima domanda: il “nostro” Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica definisce i biocarburanti laconicamente (e senza virgole) come “carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa”. Ad essere più precisɜ, i biocarburanti sono qualsiasi fonte di energia ottenuta da materiale organico (biomassa), sia che questa materia organica sia usata direttamente (come bruciare la legna), sia che sia trasformata con processi chimici. A seconda della biomassa utilizzata, i biocarburanti sono poi generalmente divisi in biocarburanti di prima generazione (prodotti da piante alimentari), di seconda (parti cellulosiche di piante alimentari, piante non alimentari e rifiuti urbani) e di terza generazione (alghe e microorganismi).

Nel discorso pubblico, la scelta di restringere il campo di applicazione dei biocarburanti ai trasporti, e di escluderne versioni low-tech come il vecchio ciocco di legna, è funzionale al modo in cui i biocarburanti ci vengono venduti: ovvero come una soluzione altamente tecnologica, calata dall’alto dell’ingegneria verde, ma che permette di mantenere gli stessi sistemi di produzione (Eni), distribuzione (il “benzinaio”) e utilizzo dell’energia (il parco auto esistente). Lontano da parole spaventose come elettrificazione o efficientamento, che ci parlano di cambiamenti sistemici ad ampio raggio, il biocarburante sembra portare la transizione energetica direttamente nel nostro serbatoio. Ancora meglio, biocarburanti come il biodiesel non ci richiedono neanche di rinunciare al fossile: la maggior parte della crescita dei biocarburanti deriva dal loro uso come additivi nei carburanti tradizionali ottenuti dal petrolio per “abbattere le emissioni” (citation needed, come vedremo tra poco).

Usare i biocarburanti dovrebbe quindi essere una risposta a molteplici problemi. Non solo potremmo sfruttare delle risorse oggi viste come scarti (sfalci e residui di biomasse vegetali), ma non dovremmo né cambiare la filiera di produzione dei carburanti né le automobili che oggi li usano. Insomma, cambiare tutto per non cambiare niente – neanche il nostro vecchio pandino.

Se tutto questo sembra troppo bello per essere vero – lo è. I biocarburanti deludono in quasi tutti gli aspetti, e vale la pena accennarne anche solo una parte:

  • Emissioni di inquinanti atmosferici: forse per noi che viviamo nella Pianura Padana è difficile dimenticarlo, ma uno dei grandi problemi dei motori endotermici, insieme alla CO2, sono tutti gli altri inquinanti che immettono in atmosfera: NOx, particolato, anidride solforosa, monossido di carbonio ecc. Tutti insieme, questi inquinanti (anche se non prodotti solo dalle auto) causano dalle 4 alle 8 milioni di morti premature all’anno nel mondo. Sostituire i carburanti fossili coi biocarburanti non cambierebbe nulla in questo senso. Anzi, secondo studi epidemiologici, le emissioni da biodiesel contengono più inquinanti e sono più dannose di quelle da idrocarburi.
  • Uso di materiali di scarto: per quanto sia bello immaginare di trasformare materie di scarto in carburante utile, queste rappresentano solo una parte marginale delle fonti da cui oggi è prodotto il biocarburante. In realtà sia etanolo che biodiesel sono prodotti principalmente da piante cresciute appositamente per essere trasformate in biocarburanti (soprattutto mais e canna da zucchero per l’etanolo e olio di palma, di soia e di colza per il biodiesel)5. La monocultura è, ovviamente, il modo in cui queste piante vengono “prodotte”, per così dire, con ingenti danni per la biodiversità, peggiori persino di quelli causati dall’espansione dell’ambiente urbano.
  • Velocità di adozione: anche dimenticando quanto detto sopra, i biocarburanti sono in estremo ritardo per dare un contributo alla decarbonizzazione. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (non esattamente degli ecologisti radicali), prevede che la produzione di biocarburanti debba aumentare di circa l’11% annuo da qui al 2030. La crescita prevista tra 2022 e 2024 è del 6%.
  • Riduzione delle emissioni di CO2: qui casca l’asino. Infatti secondo uno studio europeo del 2015, i biocarburanti emetterebbero in media quasi il doppio delle emissioni dei carburanti fossili durante il loro ciclo di vita. Queste emissioni derivano per la maggior parte dai cambiamenti nell’uso del suolo causati dalla coltivazione delle biomasse – emissioni che non sono normalmente valutate, portando a considerarli più green. Certo, l’analisi di ciclo di vita dei biocarburanti non è semplice e non può darci risultati certi – lo studio europeo ottiene uno dei risultati peggiori in termini di emissioni tra quelli che si trovano in letteratura – ma di certo la riduzione di emissioni grazie ai biocarburanti non è assicurata.

Fin qui i biocarburanti sembrano un fallimento su ogni fronte. Ogni fronte, è bene sottolinearlo, tecnico, che è il campo di significati implicito in come parliamo dei biocarburanti – un campo fatto di gas serra equivalenti, gigawhatt, impatto sull’ambiente…

Ma i biocarburanti sono anche una tecnologia, ovvero un “fenomeno sociale [che presenta] molti aspetti sistemici” (Elementi di antropologia della tecnica, Pierre Lemonnier). Dobbiamo quindi porci il problema di quali siano le loro caratteristiche sociali. In questo l’ecologia politica è fondamentale, se essa è, nelle parole di Emanuele Leonardi, “uno studio della crisi ecologica come espressione ambientale di una dinamica socialmente disfunzionale”.

La terra dentro il capitale: il nuovo estrattivismo

Per comprendere i biocarburanti alla luce dell’ecologia politica, è utile spostarci lungo la loro catena di produzione. Per farlo prendiamo La terra dentro il capitale, libro dove Maura Benegiamo analizza il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento di grandi porzioni di terreno da parte di multinazionali. I numerosi passaggi di proprietà diventano visibili a partire dalla crisi del 2008, quando cominciano a interessare superfici sempre più ampie.

Secondo le stime più ufficiali di quel periodo almeno 45 milioni di ettari di terra arabile erano passati di mano nel solo biennio 2008-2009 […] Interi pezzi di territorio stavano transitando nelle mani di gruppi e attori economici dalle identità poco chiare e sulla base di processi poco trasparenti.

Dalla crisi in poi, queste privatizzazioni sono proseguite a velocità più o meno costante, come tracciato dal portale Land Matrix, che monitora i progetti di acquisizione dal 2015 in avanti.

Grafico 1
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Dal grafico vediamo anche il legame tra land grabbing e biocarburanti: nonostante vari nel tempo, l’area acquisita al fine di produrre biocarburanti rappresenta una quota significativa, attorno al 16%, rispetto al totale globale di terreni monitorati da Land Matrix.

Grafico 2
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L’Italia si inserisce in questo fenomeno come paese di origine delle aziende compratrici per circa il 3% della superficie venduta globalmente. I paesi in cui le aziende italiane operano sono principalmente paesi lungo la costa atlantica e indiana dell’Africa.

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Principali paesi in cui aziende italiane iniziano processi di acquisizione di terreni. Fonte: Land Matrix

Di questi terreni, quasi il 50% è destinato alla produzione di biomassa per biocarburanti.

Grafico 3
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Un ultimo dato importante è che un numero molto elevato di questi accordi per la produzione di biocarburanti fallisce; il 41% degli accordi tentati, per il 71% della superficie. Tanto quanto i biocarburanti falliscono nella loro promessa di energia pulita, falliscono apparentemente anche come investimento economico. Ma solo in apparenza. Allargare lo sguardo al contesto più ampio della loro produzione, ci permette di capire la loro funzione nei termini dell’economia capitalista.

Il fallimento non esiste, esistono solo i risultati

Benegiamo descrive uno di questi progetti falliti: un accordo tentato nel 2010 dal gruppo Tampieri per l’acquisto di terreni in Senegal, nella zona del Ndiaël, e fallito definitivamente nel 2017 a causa della resistenza delle popolazioni locali. L’area, nel delta del fiume Senegal, è caratterizzata da un territorio semiarido, stagionalmente alluvionato dal fiume e abitato da una comunità appartenete al gruppo Peul dedita all’allevamento dello zebù e di altri animali. Questo modello di sussistenza, basato sulla pastorizia e fortemente dipendente dalla morfologia della valle e dalle zone umide che vi si sviluppano stagionalmente, ha portato queste popolazioni a essere storicamente escluse dal diritto all’uso del terreno, riconosciuto invece agli agricoltori dell’area. L’utilizzo del terreno previsto dall’accordo del 2010 avrebbe reso impossibili le tradizionali pratiche di pastorizia della popolazione a causa della recinzione delle aree e dell’assegnazione di spazi limitati al pascolo; da qui è nata la resistenza di 37 villaggi che è infine riuscita a bloccare il progetto.

L’accordo del gruppo Tampieri è un nulla di fatto, che però

non ha significato un ritorno alla situazione precedente. Il terreno è ancora sotto il controllo dello stato a seguito del declassamento dallo status di protezione della riserva, mentre le agenzie governative stanno perseguendo altre iniziative commerciali con nuovi investitori.

La vita delle comunità Peul è messa oggi a repentaglio dalle modifiche all’ecosistema della zona, dai lavori portati avanti prima del fallimento del progetto, e dal nuovo assetto di proprietà definito per le terre. Inoltre, il lungo processo di contrattazione con le popolazioni locali ha lacerato il tessuto sociale, acuendo particolarismi e differenze di potere già presenti. Anche le persone che credevano nella necessità dell’integrazione di pratiche di pastorizia e agricole prima dell’inizio dell’acquisizione, si trovano oggi costrette a dover scegliere tra una difesa quasi disperata della loro autonomia e la vendita del loro lavoro salariato.

NBB feed 1

Quello che potrebbe quindi sembrare un tentativo fallito di enclosure di territori, si rivela essere un successo nell’inclusione di nuove porzioni del mondo nel mercato globale capitalista.

Tornando ai biocarburanti, la loro presenza in questo processo è significativa. Essi sono una tecnologia che porta con sé un discorso-sulla-tecnologia. Questo discorso verte sui loro pregi ambientali (reali e supposti) e prescrive il loro ruolo nella transizione energetica; il discorso-sui-biocarburanti è fondamentale per rendere accettabili i processi di espropriazione che abbiamo descritto6 e per giustificare economicamente e socialmente lo sfruttamento dei territori e degli esseri viventi, umani e non, che li abitano.

Sfruttamento che non è situato solo nel luogo di produzione delle biomasse, ma anche nel luogo di utilizzo dei biocarburanti, cioè nelle nostre vite nel nord globale. Attraverso il discorso-sui-biocarburanti manteniamo la produttività al centro del nostro agire e siamo portatɜ ad accettare le stesse logiche estrattive che ci hanno condotto sull’orlo del collasso climatico. Il poco tempo che abbiamo per cercare soluzioni tecnicamente e politicamente preferibili viene espropriato per estendere il più possibile la durata dell’attuale modello di estrazione del profitto.

In questo senso, l’estrattivismo è anche nei confronti del nostro futuro.

Strategie di resistenza

Il processo di appropriazione delle terre è quindi parallelo al processo di appropriazione della nostra possibilità di rispondere al collasso ecologico da parte del capitale. Ma come possiamo opporci a questa appropriazione? Leggendo Benegiamo ipotizziamo due strategie.

Uno: rifiutarsi di essere stakeholder.

Le persone che si oppongono al progetto del gruppo Tampieri nel Ndiaël rifiutano di essere viste come semplici portatori di interesse disciplinati, in un processo di cui sono già state definite le caratteristiche e la conclusione. Esse si organizzano tra loro, fanno azioni, denunciano l’ingiustizia del processo descritto come equo dalle autorità. Da un lato non accettano di sedersi pacificamente ai tavoli costituiti dall’azienda e dallo stato (quando anche vi fossero invitati); dall’altro si attivano per creare spazi di dibattito con i vertici dell’azienda dove possano dialogare in posizione paritaria. Non accettano che la loro vita nel delta del fiume Senegal possa essere letta solo come una questione di accordi economici e diritti fondiari.

Allo stesso modo, anche noi possiamo portare avanti azioni di resistenza diretta e di rivendicazione di spazi realmente democratici. Per farlo dobbiamo riconoscere che la lotta per la transizione ecologica non può limitarsi a una scelta su quale sia la fonte energetica migliore. Farci intrappolare nel discorso sulle tecnologie – anche in nome della “neutralità tecnologica” – non è solo un modo per rallentare il cambiamento, ma anche e soprattutto per legarci all’attuale modello di sfruttamento e agli interessi di chi lo porta avanti (Eni e lo stato italiano per dirne due) e ne sta attivamente ampliando il campo d’azione.

Due: liberare lo sguardo.

Oltre ad opporsi all’acquisizione della loro terra, i pastori del Ndiaël affermano l’importanza e il significato del modo in cui vivono il loro territorio. Fanno resistenza in quanto parte di quei luoghi, per difendere non una qualche forma di natura ma la loro stessa vita, la loro esistenza materiale, ma anche i significati che danno al loro esistere attraverso la pastorizia.

Essere pastori non è un lavoro nel senso che tale parola ha assunto sotto il capitalismo industriale […] le persone con cui parlavo, così come le loro nonne e bisnonni, avevano più volte attivamente scelto di essere e restare allevatori. Si tratta di una scelta che aveva e ha a che fare con questioni quali l’identità, l’autonomia e il senso di sé.

Questo non vuol dire legarsi a certe pratiche e negare la possibilità di un cambiamento, ma negare la separazione tra “[la] possibilità di prendersi cura di un luogo e [la] capacità della riproduzione sociale ed economica di una comunità”. Significa sentirsi parte di ambienti minacciati e fare fronte comune con tutte le entità non umane che li abitano7, senza bisogno di filtri scientifici, sentirsi chiamatɜ alla difesa di ciò che si ha intorno e con cui si vive.

Anche noi abbiamo bisogno di imparare a sentire questa lotta. Rivendicare spazi salubri non in nome dell’ambiente, ma come lotta per noi stessɜ e per le nostre vite. Dobbiamo riuscire a dirci perché una città progettata per le auto e soffocata dalle polveri sottili, anche prodotte da biocarburanti, non è il luogo in cui vogliamo vivere. Questo senso di identità, questa narrazione comune che ci lega ai territori che dobbiamo difendere, è difficile per noi da sentire, ma non è del tutto persa.

Come scrive Benegiamo in conclusione al volume:

Non si tratta solo di resistere ai processi di spoliazione e impoverimento, ma anche di riportare al centro narrazioni in grado di far valere le storie altre che abitano la modernità, si tratta, in sintesi, della possibilità di liberare lo sguardo.


Note

1 Sul ruolo fondamentale di Eni nelle politiche ambientali italiane e nella costruzione di retoriche conservatrici o negazioniste in tema ambientale, vedi Climate Obstruction in Italy nel libro Climate obstruction accross Europe.

2 Tanto da venire multata dall’autorità garante della concorrenza e del mercato per il suo uso ingannevole dei termini “green” e “rinnovabile” in riferimento al biodiesel che mette in commercio.

3 Qui un report dettagliato di A SUD e CDCA sulla strategia di Eni in tema di biocarburanti, aggiornato al 2024.

4 Il report Energia nel settore Trasporti 2005-2021 di GSE contiene molti altri dati sull’andamento nell’uso dei biocarburanti, sull’origine delle loro materie prime e sul tipo di biocarburanti consumati e prodotti in Italia, con qualche confronto con la realtà europea.

5 Qui un’analisi dettagliata del tipo di materie prime usate da Eni per la produzione di biocarburanti e sulle potenziali frodi nella valutazione di quali di queste siano o meno in competizione con la produzione alimentare

6 Quello che abbiamo definito come inclusione di nuovi territori nel capitalismo globale può anche essere letto nell’ottica di quello che Jacques Camatte, filosofo e militante politico francese, chiama échappement o run away, ovvero il processo attraverso cui «il modo di produzione capitalistico non conosce più un’alterità da assorbire, che ne alimenti lo sviluppo attraverso l’opposizione, ed è quindi libero di dispiegarsi assorbendo tutti i livelli di realtà che gli si parano davanti: le classi, il funzionamento della legge del valore, la politica e lo Stato, gli equilibri ecologici e le rappresentazioni sociali» (Per una critica del Marxismo come «ideologia dello sviluppo». Il percorso di Jacques Camatte, Michele Garau).

7 Léna Balaud in questo articolo parla delle alleanze tra umani e non-umani, di come possiamo iniziare a percepirle e agirle.

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