Politicizzare il politico
Quando parliamo esplicitamente di “politico” in ambienti informali, suscitiamo tutto un ventaglio di reazioni che va dalla diffidenza e ritrosia, al disinteresse (e anche un po’ di disprezzo). Quelle stesse persone che noi consideriamo in primo luogo soggetti politici, rispondono alla nostra interpellazione mettendo una distanza tra sé e la parola “politica”.
Lungi dall’offenderci, in realtà queste reazioni rientrano in un’idea molto comune della politica, che abbiamo condiviso noi stessə. La cronaca politica e il realismo politico sono tutto sommato poco edificanti, non ci rappresentano, ci comunicano che i nostri bisogni non sono abbastanza urgenti e la nostra comprensione non abbastanza profonda per prendere parte al discorso.
Viviamo in un contesto culturale che ci vuole artefici del nostro destino, ma non ci fornisce gli strumenti attraverso cui indirizzarlo (oltre ovviamente al capitale). Per recuperare questi strumenti ci serve innanzitutto ricostruire una comprensione individuale e condivisa e una relazione con essi.
Cos’è il politico
Quando parliamo o scriviamo di politica abbiamo sempre ben chiari due significati distinti della parola “politica”. Il primo:
Il complesso delle attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di [persone – ndCC]. Il termine deriva dal greco pòlis…
Enciclopedia Treccani
Il secondo si rifà invece a una definizione più ampia della categoria del politico, come ciò che concerne le strutture e le forme in cui il potere si articola all’interno di una società. A questa accezione si rifanno ad esempio i discorsi sulla biopolitica e rivendicazioni come “Il personale è politico” femminista.
Il campo del politico quindi non si limita a quello del governo né a quello dei partiti. Rifiutiamo anzi le definizioni di politica che mettono al centro lo stato come protagonista della vita pubblica. Non vogliamo ridimensionata l’agentività degli altri soggetti politici e ridotta ogni loro/nostra rivendicazione a una rivendicazione per e nello stato. Anzi, l’esperienza diretta ci ha insegnato che la distribuzione del potere decisionale precede ed eccede in ogni momento le forme contingenti dello stato.
Da un lato quindi, la cosa pubblica, e dall’altro il potere. Ma c’è anche un terzo elemento che entra nella nostra concezione di politica, che non emerge in primo luogo dalla teoria, ma dalle pratiche attive e da uno sguardo sul momento presente. La politica come co-costruzione di futuro.
La politica è lo strumento che, soprattutto in questi tempi interessanti, ci permette di determinare il nostro futuro. Ci restituisce, da un lato la possibilità di scegliere in che mondo vogliamo vivere, e dall’altro la capacità di cominciare subito a realizzarlo. É come un ponte tra la nostra agentività di oggi e la nostra vita di domani.
E forse in questi tempi interessanti quel ponte è l’unico modo per arrivare dall’altra parte in condizioni tollerabili. Decidere adesso di non decidere, vuol dire arrendersi a un futuro di merda, sia che la resa si chiami fine della storia o tecnocrazia. Esimersi dalla politica è rinunciare al diritto di dire come stiamo al mondo, e come vorremmo starci. Al contrario, rivendicare uno spazio politico è innanzitutto rivendicare questo diritto alla voce e alla scelta, a una presa di parola autonoma e autodeterminante in rapporto con una collettività.
Oggi è difficile rivendicare questi spazi politici – desiderarli è ancora più difficile che ottenerli. Quella malattia dell’immaginario che è il realismo capitalista non è mai stata così radicata e impalpabile. Da una parte l’idea che, nonostante tutto, siamo nel sistema migliore possibile, e dall’altra la frustrazione di fronte ai risultati che questo stesso sistema necessariamente produce.
Questa dissonanza sta arrivando ai suoi limiti. Il cambiamento climatico rappresenta un decisivo momento di rottura del realismo capitalista. Il mondo non può continuare a essere animato dalla logica capitalista, se vogliamo che la nostra specie (e molto altro) continui a esistere. I meccanismi dello sfruttamento e dell’accumulazione che hanno portato al cambiamento climatico nascono in seno al capitalismo, e oggi devono cambiare.
Perciò politico è prendere in mano il proprio desiderio di continuare a vivere in maniera tollerabile. È riconoscere il proprio desiderio, inseparabile da tutti gli altri desideri di vivere meglio, umani e non umani.
Politico è orientare la propria azione inserendola in un contesto fatto di altri esseri e altre agentività. È tenere conto delle sue origini e delle sue implicazioni per tuttə.
Politico è l’unico modo in cui possiamo realizzare una vita migliore, che è migliore solo se lo è per tuttə.
È evidente che il politico ci serve a dialogare col futuro, però è una pratica del presente. È il presente ad essere politico: sono i modi in cui usiamo i nostri soldi e il nostro tempo, i modi in cui ci organizziamo e ci relazioniamo, come abitiamo lo spazio pubblico, come ci raccontiamo, quali tecniche/tecnologie adottiamo, sono i rapporti di potere a cui partecipiamo…
Politico è interrogarci su tutti questi elementi e altri ancora, e chiederci se ci sta bene che rimangano gli stessi. Avviare questo dialogo tra il nostro desiderio e le particolari deviazioni che il futuro imboccherà.
E allora i luoghi del politico non sono solo la cabina elettorale, la piazza o il circolo operaio. Sono anche la camera da letto, il supermercato, l’ospedale, il cantiere, l’autostrada, l’ufficio, la campagna. E ancora i luoghi non fisici come la televisione, i sogni, il web.
Il giardino punk è uno spazio politico, e non potrebbe essere altrimenti. Dal proporre e discutere collettivamente modi per vivere meglio nel e col mondo, emerge quel politico che è un gesto di cura verso il presente.
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