Cose interessanti che si trovano in qesto libro, raccontate per chi ha di meglio da fare che leggerlo
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Il codice del capitale // Katharina Pistor

Capitale, stato e legge sono meno diversi di quanto possa sembrare.

23/12/2024

Ci sono molti modi per affermare la connessione tra capitale e stato, tra sfruttamento del lavoro salariato (sempre che lo sia, e che non sia direttamente schiavitù) e il monopolio di forza e potere decisionale delle entità statali. Da anarchichɜ non siamo ovviamente nuove a questa connessione – ricordiamo sempre che l’anarchismo è socialismo, e che all’inizio della loro storia pensatori come Marx e Bakunin si riconoscevano in uno stesso movimento.

Forse questa connessione, quantomeno nel modo in cui normalmente viene spiegata, ha delle pecche. Basandosi su concetti molto astratti (dominio, libertà, alienazione) o su analisi storico-economiche lontane dall’esperienza quotidiana di persone del nord globale (processi di accumulazione primaria, colonialismo, rivoluzioni borghesi), rischia di mancare di concretezza, di sembrare una costruzione “ideologica” priva di riscontro nella realtà.

Mi ha molto stupito, quindi, trovare una frase come questa in un libro sul diritto, molto concreto e persino pignolo:

[Delegando la protezione del controllo materiale sulle risorse] allo stato, e pertanto rendendone sociali i costi, i detentori delle risorse possono risparmiare enormemente. Cosa ancor più importante, possono usare le proprie risorse in modi altrimenti impossibili. Possono detenere risorse senza esercitarne il controllo materiale. Possono persino detenere asset intangibili, che non esistono materialmente, ma solo in forma giuridica, e spostare asset in gusci legali dove saranno al riparo dai creditori, impegnandoli o addirittura re-impegnandoli lasciando solo una scia di carte. E possono fare tutto questo solo con l’ausilio di una legge supportata dal potere dello stato.

La tesi di Il codice del capitale di Katharina Pistor è questa: il capitalismo sarebbe impossibile senza il diritto, ovvero senza una definizione socialmente accettata e imposta di quali siano le regole del gioco. Non sono le leggi del mercato e nemmeno l’imposizione coercitiva (per quanto questa sia sempre necessaria) a rendere possibile il capitalismo, quanto un problematico patto sociale che definisce la proprietà e le sue caratteristiche. Una definizione che è però minata fin dall’inizio, in quanto viene imposta e osservata da entità (almeno nominalmente) condivise da tuttɜ, ma che danno privilegi e preferenze specifiche ad alcuni soggetti:

Non la risorsa stessa, ma la sua codifica legale protegge il detentore dai capovolgimenti dei cicli finanziari e offre longevità alla sua ricchezza, rendendo possibile una disuguaglianza duratura.

In una delle parti più interessanti del libro, Pistor dà una definizione di capitale che è illuminante, in quanto pone in modo fondamentale la sua dimensione culturale, molto più che economica e strutturale: «il capitale è una qualità giuridica che contribuisce a creare e proteggere la ricchezza». Ovvero, il capitale non è altro che qualcosa che, in forme storiche via via diverse e definite da specifici stati e ordinamenti giuridici, serve solo a produrre profitto in un senso molto netto. Tutte le perdite o i problemi che l’uso del capitale può generare sono infatti presi in carico dalla società (vedi il capitolo sulla bancarotta, che rende possibile arricchirsi anche se la propria azienda fallisce), mentre il profitto è attribuito in modo assoluto a singole persone ed entità.

Possiamo lasciare il racconto dello sviluppo storico di questa codificazione della disuguaglianza, dalle enclosures alla crisi dei subprime del 2008 fino alle frontiere post-nazionali del diritto societario, a Pistor, ma vogliamo dire ancora una cosa.

Il patto sociale alla base del capitalismo si può spiegare «senza costruire identità di classe, come si sentono in dovere di fare i marxisti» (anche se il concetto di classe ha i suoi vantaggi), andando nello specifico di come questo funziona e cercando degli strumenti pratici di sovversione del suo ordinamento. Come afferma Pistor nel finale del libro, anche il capitalismo si è costruito pezzo per pezzo, con interpretazioni e applicazioni della legge favorevoli allɜ proprietariɜ. Per contro, l’alternativa potrebbe crearsi introducendo via via diritti che limitino la sfera socialmente attribuita al dominio del capitale.

Forse qui divergiamo un po’ da Pistor: certo, la lotta contro il capitale oggi si deve misurare con lo stato, e in parte può passare attraverso l’uso dei suoi strumenti – persino lɜ zapatistɜ hanno fatti patti col governo centrale. Ma tra le cose a cui cercare alternative dobbiamo provare a includere lo stato stesso, che per quanto funzionale al capitalismo e oggi in gran parte preda di esso, lo precede e lo rende possibile, almeno in potenza.

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