CollettivoContesto
«Fin da bambino, sebbene non mi sia mai sentito una ragazza, non ho mai voluto veramente accettarmi. Ho iniziato a vivere come me stesso da circa un anno.»
«Io sono trans con tutto quello che questa parola tiene insieme.»
«Mi sono sempre sentita femmina. Mia madre era disperata.»
«Uso il femminile perché ritengo che questo linguaggio sessuato non mi preveda, e di conseguenza, tra gli unici due generi previsti, io preferisco il femminile.»
«A 19 anni, andando in discoteca, ho iniziato a rendermi conto che ero attratta dagli uomini.»
«Durante la mia adolescenza capivo che il mondo non mi corrispondeva e io non corrispondevo al mondo.»
«Non tutte le persone disforiche vogliono cambiare il loro corpo.»
«Sono sempre stata così, ma ho sempre vissuto nascosta cercando di mostrare solo il mio lato maschile alle persone.»
«Non esco da una fiction per entrare in un’altra fiction.»
«Io credo che se una persona si sente transgender, questa è una condizione sufficiente per essere una persona transgender valida.»
«Sono il mostro che vi parla. Il mostro che avete costruito con i vostri discorsi e le vostre pratiche cliniche.»
«Sento di vivere finalmente una vita autentica.»
«Io, in quanto corpo trans e non binario, cui né la medicina, né il diritto, né la psicoanalisi, né la psichiatria riconoscono il diritto di produrre un discorso o una forma di conoscenza su me stessə – io ho imparato la vostra lingua, e sono qui per rivolgermi a voi.»
«Sono il mostro che si alza dal lettino e prende la parola, non in quanto paziente, ma in quanto cittadinə, in quanto vostrə pari mostruosə.»
Sono questi, insieme a molti altri, i modi in cui le persone trans* si raccontano. Alcuni li capiamo, altri no; alcuni ci rispecchiano, altri no; alcuni nascono da un retroterra e da un sistema di simboli e concetti che abbiamo imparato a vivere su noi stessȝ con la teoria e con la prassi. Altri no.
Abbiamo raccolto questi frammenti mentre preparavamo la serata dedicata al Transgender Day of Visibility da portare ad Arcigay Torino il 2 aprile 2023. Abbiamo provato a sollevare la questione della visibilità con più lucidità di quanto avessimo mai fatto, non solo perché era in qualche misura la nostra missione, ma anche perché quella sede rappresentava un’opportunità molto particolare.
Partendo dalla carta bianca che ci è stata affidata, abbiamo avuto l’opportunità di bucare (pur per poco tempo) la superficie dei discorsi più comuni sulle soggettività trans*. Abbiamo affrontato, o perlomeno toccato, aspetti molto più profondi, che raramente abbiamo l’opportunità di sollevare in un dibattito pubblico, disponendoci anche ad accogliere qualsiasi riflessione o racconto che ne possa emergere – quelli che comprendiamo e condividiamo, oppure no.
Ecco perché, sebbene lo scambio che abbiamo avuto la sera del 2 aprile con le persone che erano fisicamente presenti sia irripetibile e impossibile da riportare, vogliamo pubblicare qui il materiale testuale da cui ha preso avvio e le nostre note in merito. È materiale che ha ancora moltissimo da dire e tante questioni da approfondire, quando non ancora da aprire.
Sulla visibilità
La visibilità è sempre stata un tema fondamentale e particolarmente difficile per le persone trans*. Da un lato, la marginalizzazione da parte delle stesse società di cui fanno parte si porta dietro tutta una storia di stigma, abusi e violenze, fino al punto – è sempre utile ricordarlo – che tutt’oggi la comunità trans* organizza una giornata per commemorare le persone morte uccise o suicide perché trans*, e sono sempre tante.
Dall’altro lato è innegabile che storicamente la stessa comunità LGBT abbia avuto dei problemi a riconoscere e incoraggiare la visibilità trans*. È esemplare il caso di Sylvia Rivera, uno dei corpi in prima linea nella rivolta dello Stonewall Inn, iniziata il 28 giugno 1969, e che darà origine ai Pride. Bastano pochi anni dall’inizio dei “moti” perché Rivera, donna trans latina e sex worker, venga messa da parte da una nascente comunità LGBT che aveva optato per una strategia politica decorosa potenzialmente assimilazionsita.
[Nella sala principale della sede di Arcigay Torino, su una parete proprio sopra le nostre teste mentre raccontavamo queste cose, c’è uno scudo antisommossa con la foto di Sylvia Rivera e la scritta “Siamo tuttt* Sylvia Rivera”.]
È forse anche per questo, per mostrare un volto diverso della comunità trans*, che Rachel Crandall-Crocker nel 2009 ha inaugurato la giornata del TDoV (Transgender Day of Visibility). Il 30 aprile è una giornata lontana sia dal TDoR coi suoi morti, che dal Pride, una giornata dedicata completamente alle persone trans*, in cui rivendicare e costruire tuttə insieme la nostra visibilità.
Per questo noi stasera abbiamo deciso di essere qua. Siamo in un momento in cui la rappresentazione delle persone trans* inizia ad esserci e a circolare anche tra i media mainstream. Se fino a qualche tempo fa qualsiasi rappresentazione era meglio di nessuna rappresentazione, adesso ci rendiamo conto che non è più così. Dobbiamo riflettere su quali rappresentazioni ci stanno bene e quali no, e dobbiamo farlo tuttə insieme.
Questa sera proietteremo del materiale d’archivio, dei cortometraggi, degli spot e dei servizi giornalistici [in collaborazione con il gruppo cinema e il gruppo donnə di Arcigay Torino]. Mostreremo delle cose che che ci piacciono e altre che non ci piacciono, e soprattutto troveremo delle narrazioni molto diverse di cosa sono le esperienze trans*, spesso (e volutamente) in contraddizione tra loro. Il nostro obiettivo è confondervi e confonderci le idee con queste suggestioni, ed entrare insieme il più possibile nel regno della complessità.
Quello che vi chiediamo è di abbracciare la vostra confusione, condividerla con noi, avere sempre più domande che risposte, e noi ci faremo confondere dai vostri spunti e dalle vostre riflessioni di persone trans* e cis. Suona un po’ come una presa per il culo, ma vorremmo che suonasse anche come una chiamata alle armi. In gioco c’è sì la qualità della nostra vita, ma c’è anche la vita di altre persone che faranno queste esperienze dopo di noi. Insieme stiamo cercando l’immagine che vorremmo dare delle persone trans* – che forse è quella che avremmo voluto vedere noi quando ancora non eravamo certə di essere trans*.
Leggi in difesa della norma
Oltre alla marginalizzazione sociale e all’atteggiamento della comunità LGBT, c’è una terza questione di cui non abbiamo parlato, che rende ancora più complicato e a tratti irresolubile il tema della visibilità trans*. E cioè il fatto che talvolta le persone trans* la visibilità non la vogliono.
Ovviamente è una scelta legittima, talvolta influenzata dallo stigma, dalla prevalenza di discorsi medicalizzanti, e dall’esistenza di modelli di genere ideali. La ricerca spasmodica del passing ad esempio si lega a questo.
In questo senso, sia dal punto di vista medico che da quello legale, le persone trans* “perdono” la loro visibilità in virtù del fatto che i percorsi sono configurati come un passaggio da un sesso (biologico) a un altro. All’inizio e potenzialmente anche alla fine del percorso c’è la norma, due forme diverse ma perfettamente ricomprese dall’ideologia binaria.
Questo è evidentissimo nel testo della Legge 164/82, la legge italiana di riferimento per i percorsi di transizione. Basta leggere il testo per capire che questa legge non ha niente a che vedere con l’autodeterminazione delle persone e dei corpi, ma che il testo è interamente concentrato sul normare le pratiche per la rettifica anagrafica dei documenti. È fondamentalemnte una legge con cui lo stato tutela la norma sociale prevedendo e ricomprendendo l’eventualità di un temporaneo slittamento di una persona (possibilmente malata) fuori dalla norma. [Una storia e analisi della Legge 164/82 si trova sul blog di Monica Romano]
Una legge più volta all’autodeterminazione, come quella attualmente in vigore in Spagna, è stata ostracizzata proprio in virtù dell’importanza che dà all’autodeterminazione. Scrivono gruppi terf a proposito “delle leggi «trans», che cancellano le donne e distruggono i nostri diritti, quelli dei bambini, delle persone omosessuali e delle persone che soffrono di disforia di genere“.
Un altro caso è quello della legge approvata in Scozia alla fine 2022, che è stata in seguito bloccata dal governo del Regno Unito, cosa mai successa dall’istituzione del governo scozzese nel 1998. Ancora più impressionanti sono le proposte di leggi statali “anti-trans” avanzate negli ultimi anni negli Stati Uniti (di cui 70 approvate solo dal 2021 a oggi). Micheal Knowles, uno dei portavoce della destra conservatrice, la dice senza mezzi termini: “Il transgenderismo deve essere eradicato dalla società”.
Insomma le persone trans* e il loro diritto ad autodeterminarsi sono un problema serio: un attacco al quieto vivere e una minaccia all’ordine pubblico. Il ruolo delle leggi è, in questo senso, di far tornare le persone trans* nella società “normale”, o costringendole a nascondersi, o nella gran parte dei casi, almeno in occidente, con un’apertura liberale verso le loro rivendicazioni, che però chiede in cambio di non andare a disturbare il binarismo normativo.
Spazi di genere
Ci sono due storie che vorremmo mettere in qualche modo a confronto perché esprimono due maniere di essere trans* e di rappresentarsi molto diverse, quasi agli antipodi.
La prima è la storia di Aitor, il primo uomo trans* ad essere ammesso nell’esercito spagnolo nel 2009, alla fine di una controversia che ha chiamato ad esprimerei perfino l’allora ministra della difesa.
[Durante la serata è stato proiettato uno spezzone di un servizio telegiornalistico che mostrava un’intervista alla ministra, seguita da un’intervista allə partecipanti a un gruppo di attivismo LGBT che manifestava accanto ad Aitor, che invece non viene mai mostrato nel servizio né vengono riportate le sue dichiarazioni. A posteriori, questo è forse l’elemento più problematico del video, cioè il fatto che in tutta la questione sono sempre persone cisgender a parlare di e per la persona trans* e a restituire la loro interpretazione della visibilità trans*.]
Da un lato il telegiornalista che introduce la questione esplicita il problema dell’esercito rispetto ad Aitor, cioè testualmente la “mancanza di genitali maschili“. Dall’altro lato, un attivista e forse amico di Aitor, sostiene che lui sarebbe sempre stato un uomo, ma nato in un corpo di donna (ovviamente è impossibile sapere se questa è la narrazione che lui stesso avrebbe dato).
La seconda storia è quella (per certi aspetti piuttosto noiosa) della vita quotidiana di Silvia Calderoni, raccontata in questo cortometraggio prodotto da Gucci nel 2020:
Silvia si sveglia, fa la pipì, si lava i denti, fa stretching. Nell’appartamento che condivide con altrə giovani non conformi, Silvia va in giro con addosso solo la biancheria intima (di Gucci ovviamente), il corpo esposto che visibilmente disattenderebbe le aspettative di genere se ce ne fossero. Eppure è un corpo che merita tempo e dedizione, che merita cura ma non va “curato”, riceve attenzione come qualcosa a cui si vuol bene, non come un problema da risolvere.
Di sottofondo una band non binaria dall’atteggiamento un po’ punk. E poi Paul B. Preciado, che si rivolge a Silvia dalla televisione per raccontare la storia di come la cultura ha cercato di costruire su quel corpo una differenza, e di come oggi essere trans* è cercare di decostruirla.
Essere trans* in uno spazio senza genere è l’opposto che esserlo in uno spazio marcatamente di genere com’è l’esercito. Da un lato la rivendicazione dell’esistenza di un corpo, dall’altro la rivendicazione dell’esistenza di un genere (il corpo, non a caso, è quello mancante “di genitali maschili”, mentre i documenti sono in regola). La vita concreta e la norma astratta; una battaglia per esistere in uno spazio libero ma senza dubbio privilegiato, e una battaglia per aderire a una norma e dimostrare di aderirvi.
Vogliamo dignità pur essendo inadeguatə o vogliamo gli strumenti (legali, sociali, medici…) per poterci adeguare? E poi queste due battaglie si escludono a vicenda? O forse non dovremmo combattere per una società e delle istituzioni che ci riconoscono mentre costruiamo margini e interstizi degenderizzati?
Le esperienze trans*
Ancora un ostacolo alla visibilità è dato dal fatto che tendenzialmente nessuna persona trans* si sente a pieno titolo legittimata a parlare per tutte le persone trans*. Dall’interno c’è sempre una grande coscienza di quanto vaste e diverse sono le possibili esperienze trans*. E anche di quanto nella propria personale esperienza del genere entrino in gioco elementi che col genere non hanno nulla a che fare.
Ogni persona trans* è una persona, oltre ad essere una persona trans*. Ed è proprio sulla differenza tra persone trans* ed esperienze trans* che si gioca la possibilità di parlare di qualcosa di reale e di farsi capire anche da persone che trans* non sono.
Emerge qualcosa del genere da un altro paio di cortometraggi: uno è Vestido Nuevo (2009), e l’altro è il videoclip della canzone Edwin (2009) della band The BlackSheeps. In entrambi i casi al centro ci sono dellə bambinə, il che rende più difficile parlare di identità trans*, sia per la paura di sovradeterminare irrimediabilmente persone considerate volubili, sia perché effettivamente è comune trovare una certa incoerenza nell’espressione di genere in chi non ha ancora interiorizzato del tutto il sistema di codici e norme del binarismo.
Lə protagonista di Vestido nuevo viene fin dall’inizio raccontatə come un bambino che decide di vestirsi da bambina, semplicemente perché è quello che vuol fare. Non chiede di essere vistə, semplicemente si rende visibile perché non è del tutto consapevole dei problemi e delle conseguenze della sua visibilità.
Dall’altra parte c’è Edwin, che è ben consapevole della sfida alla norma che rappresenta, suo padre l’ha messə in guardia molto duramente. Eppure Edwin desidera vivere appieno la sua non conformità, sogna di performarla nello spazio pubblico in modo visibile, di essere amatə per questo e non ostracizzatə (il suo non è un gesto di ribellione in questo senso, non cerca il conflitto).
Sia in Vestido nuevo che in Edwin, la maniera in cui vengono ritratte queste due piccole persone rende mondo difficile identificarle come trans*. Allo stesso tempo è innegabile che le esperienze attraverso cui passano sono una messa in discussione e una rottura più o meno radicale del loro rapporto col genere.
Riassumendo al massimo tutta l’enorme gamma di possibilità della situazione individuale e soggettiva in cui ogni persona trans* si trova, quello che resta è più o meno questo: una messa in discussione e una rottura del rapporto col proprio genere, che per la gran parte delle voci che abbiamo letto e visto stasera prosegue con una messa in discussione del concetto stesso di genere fuori di sè.
Questa esperienza può avere qualsiasi forma: quella di un vestito, come per Edwin o per Lily, la protagonista di The Danish girl, quella dell’autocoscienza o della rottura di rapporti di genere rigidi di lunga data, può essere un’esperienza sessuale, sociale, farmacologica com’è stata per Paul Preciado. E tuttavia, in qualsiasi forma si presenti, non è un’esperienza che si limita solo alle persone trans, queer, gender non-conforming ecc. È un’esperienza che chiunque può fare, che non classifica una persona come trans*, ma le dà gli strumenti per comprendere a un livello più diretto le rivendicazioni di cui le persone trans* si fanno carico contro una norma sociale binaria e un’educazione di genere che opprime tuttə.
Ci sono moltissimi altri aspetti della visibilità e dell’esperienza trans* che potremmo approfondire [e che abbiamo solo accennato durante la serata del 2 aprile].
Abbiamo riflettuto sulle voci che parlavano attraverso di noi, mentre leggevamo le brevi frasi che abbiamo riportato all’inizio. Ci siamo stupitə di tutte le interessantissime auto-narrazioni che abbiamo raccolto. E ci siamo anche stupitə che le narrazioni classiche, quelle nate in un corpo sbagliato, non sono mica così facili da trovare – che forse quando una persona parla di sè stessa, cis o trans* che sia, un po’ di amore ce lo mette sempre.
Abbiamo parlato anche di gesti d’amore: come quello che fa il padre di Marco, quando con sua giacca copre il vestito rosa da bambina (Vestido Nuevo). Un gesto che protegge e che nasconde – e a chi non vengono in mente tutte le situazioni in cui ci siamo nascostə o siamo statə nascostə per proteggerci o per proteggere qualcun altrə…
E abbiamo riflettuto anche su un altro padre, che a un certo punto ha transizionato, ma sua figlia non è mai riuscita ad accettarlo (Wannabe, 2015).
Abbiamo parlato infine di relazioni, di quelle che sono di genere e quelle che invece no. Come quando Em, la protagonista di Antes de la Erupcion (2021) si trova a giocare a calcio con i suoi amici di sempre, nonostante per loro abbia transizionato e sia forse incomprensibile. E di quel gesto d’amore che è lasciare che sia lei a raccontare la sua storia.
Ci sono moltissimi altri aspetti della visibilità e dell’esperienza trans* che hanno ancora bisogno di essere raccontati. Come dicevamo, speriamo che questo sia un elemento di complessità, e che sia anche una chiamata alle armi.
💬 Parlane con noi: scrivici su Telegram
📺 Oppure iscriviti al canale Telegram
Linkano qui: