la copywriter
Quand’ero all’università andava di moda chiamare “democratizzazione delle informazioni” l’esplosione delle piattaforme e l’inizio della iperproduzione di user generated content che ci porta direttamente al mondo di oggi. Intorno a questo fenomeno c’era già molto dibattito, per esempio sulle fake news, l’hate speech, la crisi dell’industria culturale e quella della democrazia rappresentativa. Allora mi consideravo un simpatizzante del web 2.0, eppure alla prova dei fatti prendevo regolarmente le distanze dai ritmi, le richieste e i meccanismi di gratificazione delle piattaforme (e scrivevo un blog). Non avrei saputo dire esattamente cos’era a respingermi, e non l’ho saputo fino a quando sono entrato effettivamente a far parte della creator economy, proprio in veste di creator.
È stato un periodo complesso, proprio agli inizi della pandemia di Covid-19, che arrivava a interrompere per la prima volta il mio percorso di studi sempre molto partecipato. Anche allora, mentre imparavo a muovermi in quel mercato del lavoro, frequentavo in didattica a distanza un corso di Teorie Critiche in un’altra università, e stavo perciò acquisendo gli strumenti che mi rendevano intollerabile proprio il modello di creator economy di cui facevo parte.
Un punto particolarmente importante era (ed è) quello sulle conseguenze economiche della cosiddetta “democratizzazione”. Da lì viene questa nota.
Lavoro digitale non retribuito
Non sono un economista, ma lavoro con Internet anch’io, e un paio di cose mi sembra di averle capite. Il fatto di traslare la “creazione” di contenuti digitali dal campo del lavoro (almeno in parte) salariato a quello del tempo libero comporta, secondo me, una mispercezione di quello che effettivamente è.
Quella del lavoro non (del tutto) retribuito è una vecchia questione: la prendo a partire da Marx. In pochissime parole: è proprio del modo di produzione capitalistico il fatto che esista una parte di lavoro che non è retribuita al lavoratore nel suo salario, ma serve a produrre plusvalore a beneficio del capitalista. In Marx è normale, ci spiega perché quando lavoriamo ci sentiamo derubatȝ e svuotatȝ e perché le diseguaglianze di classe si riproducono sempre pressappoco uguali a sè stesse. (Se hai voglia di riaprire la questione di Marx ti consiglio di andare direttamente al Capitale, ma per sommi capi la trovi anche in un manuale del liceo). Quindi forse il titolo di questa nota non dovrebbe essere “Lavoro digitale non retribuito”, ma “Lavoro digitale non riconosciuto”. È di questo che stiamo parlando.
Creazione di contenuti
Un’altra cosa che non sorprende è che l’attività creativa non sempre si traduca in un mestiere. Possiamo metterla a paragone per esempio con il mestiere del pittore.
Al di là del giudizio sulla qualità dell’opera, posso pensare a ottimi pittori che, per scelta o meno, si sono mantenuti nella sfera della passione, dell’attività amatoriale, senza farne una professione. Altri, invece, hanno trovato il modo di vivere (o perlomeno guadagnare qualcosa) con la loro arte. Lo stesso succede anche per i digital content creators. Non tutti i vecchi blogger sono diventati scrittori, è chiaro. Come ci sono i pittori con le cantine piene di tele ammucchiate a fare polvere, ci sono romanzieri coi cassetti che traboccano di cartacce, e creators con le note del telefono e i blog pieni di ottime idee.
Fin qui il senso della parola “creators” mi sembra che non sia cambiato più di tanto col grande tuffo nella Rete [il web 1.0].
Produzione di contenuti
Il problema si presenta insieme ai social network. Quando queste idee vengono effettivamente distribuite, il gioco cambia. Mentre da pittore posso regalare i miei disegni, posso fare un ritratto a un amico ecc., e il tutto rientra nell’attività creativa di cui parlavo sopra, i social network cambiano la posta in gioco.
Facebook è l’amico a cui regali tutti i tuoi album da disegno dicendo: “beh, mostrali un po’ in giro”, e che sistematicamente corre a venderli all’asta, tenendo per sé il ricavato. Il fatto che tu come “creator” non percepisca il tuo lavoro come un lavoro, una produzione in senso industriale e marxiano, dà la possibilità alle piattaforme di appropriarsi del valore che produci senza darti niente in cambio (se non una forma di visibilità che è comunque vincolata alle loro regole e che potrebbe non tradursi mai in entrate economiche). Praticamente agli occhi delle piattaforme quello dellə content “creator” è il lavoro più vantaggioso del mondo, perché dà il 100% di plusvalore per loro e per niente in salario per te.
Per questo continuo a insistere sul fatto che la “creazione di contenuti” non è “creazione” nella logica della creazione artistica, ma è a tutti gli effetti “produzione” di contenuti, nella logica di un sistema di lavoro non salariato in cui qualcuno guadagna dal tuo lavoro. E quando parlo del guadagno delle piattaforme intendo prima di tutto la loro stessa esistenza, oltre ovviamente agli introiti pubblicitari. Tieni sempre a mente che il valore di Facebook – uno a caso – è il valore delle persone che lo usano: un social network vuoto e senza prospettiva d’uso, fosse anche il sito più complesso di sempre, varrebbe zero.
Con questo non sto dicendo che sia sbagliato esibire le proprie creazioni, né che per farlo sia meglio entrare in sistemi che prevedono giudizi di valore più o meno arbitrari da parte di istituzioni riconosciute che fanno ovviamente i propri interessi (editori, galleristi, software house, talent scout, programmi televisivi, agenzie di recruiting…). Quello che sto dicendo è che la scelta non si limita a questi due modelli.
A un certo punto si è deciso che la Rete fosse libera, ed è ancora così. Vale la pena ricordarselo.
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