(Anti)istituzionali: su uno scontro a una manifestazione trans*

01/12/2024

Una persona ne interrompe un’altra. Le due iniziano a litigare.

Succede a Torino, in piazza Carignano. La piazza è piena di altre persone che stanno partecipando a una manifestazione per i diritti trans*. Succede che una delle due ha in mano un microfono ed è su un palco. L’altra è nella platea con un megafono. La prima parla tranquillamente e ha un volume alto, l’altra urla ma si sente appena.

La persona che interrompe è quella col microfono, ma sente di essere statə interrottə perché era ləi quellə sul palco. La persona col megafono continua il suo discorso per un po’, anche se è difficile sentirlə, e poi si sposta al lato della piazza, dove arrivano anche lɜ organizzatoɜ della manifestazione.

Il diverbio prende corpo: anarchichɜ e antagonistɜ, presidentɜ e coordinatorɜ; maleparole scambiate in quel modo particolare che usi quando vuoi avere ragione (leggi averla vinta) senza sembrare stronzɜ. Quando probabilmente un vaffanculo basterebbe a rompere la tensione e ripartire da un dialogo più onesto, ma si cerca di mantenere la faccia.

Parole molto connotate. Istituzionali. Mancanza di rispetto. Zittire le voci trans*. Sopruso. Violenza.

Poi piano piano il litigio scema e le persone si allontanano. Dopo lo scontro cala un senso di delusione, con una nota di preoccupazione (speriamo che non esca lo shitstom, che non ci facciamo brutta figura).

Ma succede anche che tu ti trovi lì, che hai organizzato la manifestazione con lɜ istituzionali, ma durante la marcia hai parlato più che altro con lɜ antagonistɜ. Gli hai chiesto consigli sui cori, hai fatto casino con loro e ci hai discusso un po’ lungo la strada – non solo di politica, ma principalmente. Segui tutto il diverbio e provi a mettere un po’ a posto la situazione, ma fare lə buonə samaritanə serve fino a un certo punto (e comunque chi te lo ha chiesto?). Alla fine ci rimani male pure tu, e dato che pratichi l’overthinking come passatempo, eccoti a scriverci su molto dopo che lɜ altrɜ se ne sono dimenticate.

Col mio bel culo sulla barricata, voglio fare due considerazioni.

Non sappiamo gestire il conflitto

La questione più ovvia, denunciata anche dal più grande analista della contemporaneità che sarebbe Zerocalcare: abbiamo perso l’abitudine al conflitto. Invece di essere parte di qualsiasi politica, che per forza troverà l’accordo di alcunɜ e il disaccordo di altrɜ, il conflitto diventa un punto caldo in sé stesso.

Da un lato il conflitto è visto come un problema da evitare, qualcosa che non sta bene che succeda, o che introduce nel processo delle complicazioni inutili. La frammentazione contrapposta all’unità, e l’unità come bene assoluto. In nome di questa, e con le sinistre neoliberali, ci dedichiamo alle uniche politiche che possiamo portare avanti: quelle che non interessano abbastanza da suscitare reazioni forti, positive o negative (i bagni neutri) o quelle svuotate di significato al punto da essere universalmente accettabili (l'”autodeterminazione”).

Dall’altro lato della “barricata” il conflitto assume valore in quanto tale. Certo, far vedere che esistono un dissenso e un’alternativa a un discorso maggioritario è importante, ma possiamo ritrovarci ad agire un conflitto senza avere i mezzi per ottenere alcun risultato. Come scrive il mai abbastanza citato Comitato Invisibile, oggi è fin troppo facile per il potere egemone reprimere il dissenso. Ma un conflitto riassorbito dal potere è ancora meno efficace di uno represso.

Tutto questo per dire che per agire un conflitto efficace dobbiamo comprendere molto bene la situazione in cui viene portato mobilitando tutte le conoscenze e le forze a disposizione. In questo caso, avrebbe significato capire come è stata organizzata la manifestazione, quali erano le sue istanze, chi erano le persone che hanno partecipato ecc. Roba noiosa (lo so bene, ho partecipato anch’io), ma che avrebbe permesso di focalizzare l’azione su dei punti veramente critici che nella marcia istituzionale c’erano eccome, dimostrare le mancanze del suo approccio. Peraltro, si sarebbe potuto ottenere l’appoggio di alcune delle persone che la marcia stessa l’hanno progettata. Forse si sarebbe potuto dare corpo a un’azione organizzata e visibile, che chiunque nella piazza avrebbe potuto leggere come dissenso. Si sarebbe potuto ad esempio far saltare un discorso già previsto, prendersi uno spazio collettivo e portare la forza delle voci che dissentono.

Messe insieme, queste due posture mi parlano del fatto che non sappiamo gestire il conflitto al nostro interno. Non sappiamo gestire il compromesso coi nostri valori che l’azione spesso ci richiede – come confrontarsi con le istituzioni da anarchichɜ o dover valutare efficacia e coerenza delle pratiche.

Quello che leggo in questa piazza è un momento in cui sono venute a galla delle fragilità, tanto per la parte istituzionale quando per quella antagonista. Hanno reso evidenti, almeno per me, solo i limiti dei rispettivi approcci e nessuna delle loro potenzialità.

Ma da persona positiva quale sono, voglio chiudere con una proposta per il futuro.

Non sappiamo dare valore alla differenza

Gli stessi spazi in cui l’intersezionalità è una colonna portante non sanno dare valore alla differenza. Certo, abbiamo forse imparato che non possiamo dimenticarci che la nostra visione è situata e che abbiamo bisogno di confrontarci con persone con esperienze incarnate differenti, soprattutto se minorizzate. Ma ci manca la capacità di saper dare valore alle differenze di approcci.

Come ho raccontato, la divisione principale che ha creato conflitto durante la manifestazione non è tanto ideologica in senso stretto: transfemminismo, intersezionalità delle lotte, approcci non patologizzanti e ricerca dell’autodeterminazione al di fuori delle norme e dei circuiti egemoni sono valori condivisi tanto da chi era sul palco quanto da chi contestava. La divisione è legata al portare avanti o meno pratiche istituzionali, cioè riconoscere valore più all’azione negli spazi dove si prendono le decisioni (per noi e su di noi) o più all’autodeterminazione nell’organizzazione e nell’azione. Una divisione legata anche a fattori economici, quali fondi europei o mezzi mobilitabili da grandi associazioni, e a fattori ideologici, quali la possibilità di dire cosa si pensa davvero senza il rischio di perdere il posto a tavoli o di essere estromessɜ. Ma se un megafono comprato coi soldi del comune e prestato a dellɜ antagonistɜ per urlare «tout le monde dèteste la police» ci insegna qualcosa, è che sono anche divisioni hackerabili.

Per farlo dobbiamo sviluppare una visione più ecosistemica dei nostri movimenti, per poter sfruttare modi nuovi di accrescere la nostra potenza. Per fare un’esempio molto distante da noi, il mantenimento dell’autonomia zapatista e delle sue pratiche di autogoverno e resistenza non sarebbe stato possibile senza una rete di supporto nazionale e internazionale, formata anche da persone non votate alla lotta violenta portata avanti dall’Esercito di Liberazione. Come ci ha poi insegnato il movimento dei movimenti, quello che serve per mobilitare grande massi di persone, e soprattutto dare il supporto per portare avanti lotte pratiche, è la pluralità degli approcci, la fecondità della cross-contaminazione e il confronto costante, anche conflittuale, ma arricchente.

Cercare di “fare da sé” o, peggio ancora, cercare di decidere quale dovrebbe essere l’approccio degli altri gruppi che partecipano alla nostra lotta non è utile: l’uno ci costringe a un isolamento sterile, alla riproposizione di pratiche di lotta inutili o fortemente problematiche; l’altro ci porta ad agire sempre sulla difensiva, a non accogliere le accuse e a non trovare occasione di azione coordinata efficace.

Tirando le somme: dovremmo dare valore al fatto che alcune persone tentano approcci diversi dai nostri. Troviamo del tempo per discuterne e per perorare reciprocamente le nostre pratiche, ma rimaniamo apertɜ alla possibilità che ci sia qualcosa da imparare in quello che fanno lɜ altrɜ. Fosse anche solo imparare dai movimenti istituzionali come funzionano effettivamente certi meccanismi istituzionali, e quindi potenzialmente come ostacolarli più efficacemente, e imparare dai movimenti antagonisti come iniziare a creare delle vere alternative al controllo sui nostri corpi.

Insomma, il vaffanculo penso che ce lo siamo scambiato. Ora forse possiamo capire come rivolgerlo al cis-sessismo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *