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Recupero una chincaglieria d’altri tempi, un discorso mai fatto ma che penso valga la pena di venir pubblicato (anche solo per il lavoro di wikipediare tutti i terzi generi che cito). Se vuoi leggere la versione definitiva – e completamente riscritta – di questo discorso, la trovi qui. Insomma, ho solo due certezze: non mi piace la norma, e le prime stesure sono merda.
Un modo spesso utilizzato per legittimare l’esistenza delle persone non-binary è prendere degli esempi di “terzi generi” o “terzi sessi”, da varie culture. Alcune del passato: persone Gala e Kalǔ in Mesopotamia, 3000 anni fa; lɜ Sekhet, nell’Egitto del Medio Regno; Enaree, nelle popolazioni nomadi scite del IV secolo a.C. Alcune esistenti: Tritiya Prakriti nella mitologia induista; Fa’afafine e Fa’atama nelle isole Samoa; Two-spirit, nelle comunità indigene dell’America del nord. Femminielli, nei rioni di Napoli.
A me questo modo di legittimarci non piace.
Innanzitutto, queste identità non hanno quasi niente in comune. Alcune si mantengono tutta la vita, come l’identità fa’afafine, altre sono temporanee o transitorie, e legate al lavoro, all’età o alla sola identificazione, come l’identità sipini nella cultura Inuit. Alcune ricoprirono o ricoprono ruoli importanti, persino di privilegio, nelle pratiche religiose o nella cura della prole e dei malati, come lɜ Māhū a Tahiti e nelle Hawaii. Molte, invece, portano un forte stigma e sono marginalizzate e perseguitate; le società lasciano spesso la prostituzione come loro unica fonte di reddito, come nel caso delle persone Hijra nell’Asia del sud.
Nonostante queste differenze vorremmo poterle prendere, tutte insieme, rimuovere la pellicola di cultura specifica e trovare alla fine una qualche essenza, un’identità costante e naturale. Una dimostrazione che sotto la nostra cultura occidentale esiste un altro piano, comune a tutta la specie umana. Un piano da opporre a chi considera la nostra esistenza come una moda, una sofisticazione, una falsità.
Io non penso che lo possiamo fare.
Penso che l’unica cosa che hanno davvero in comune queste identità sia la nostra reazione, il nostro stupore di fronte alla loro esistenza. Questo stupore è il sintomo di un’assenza – la mancanza di un linguaggio con cui parlare di noi stessɜ, il non poter essere qualcosa di diverso da un uomo o una donna. Un’assenza costruita da quello stesso sistema che ci dice che alcune persone non sono normali, che alcuni corpi non sono legittimi, che alcune famiglie sono un’aberrazione. Un sistema violento, che dove può marginalizza, medicalizza, dichiara patologico o perverso: pratiche che servono a giustificare e mantenere le sue gerarchie patriarcali, e a farla pagare a chi non le rispetta.
Come persone non-binary siamo quindi costrettɜ ad aderire alla norma, ad adattarci a dei ruoli considerati accettabili, o magari a enumerare storie, culture e persone per dimostrare che all’interno della norma ci siamo sempre statɜ. Ma noi questa norma la rifiutiamo. E rifiutiamo la necessità di dover legittimare la nostra esistenza con qualcosa che non sia la nostra autoaffermazione. Noi esistiamo in questa cultura che ci dice che non esistiamo.
Noi non vogliamo entrare a far parte di quella norma, perché finché c’è una norma, c’è qualcunə che ne è lasciatə fuori.
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