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Riporto qui un intervento che ho fatto in occasione di una serata per l’IDAHOBIT (International Day Against HOmophobia, BIphobia Trasphobia) organizzata da me, Kay del Gruppo Formazione di Arcigay Torino e dalla Chiesa Valdese di Torino (chi sono i valdesi? cosa vogliono? e perché organizzano serate a tema omo-lesbo-bi-transfobia?). Una serata che viene proposta ormai da molti anni, e che quest’anno aveva come tema principale le soggettività non binary – da cui la partecipazione mia e di Kay.
Un intervento molto difficile da scrivere, sia perché era la prima volta che parlavo davanti a un pubblico, sia per la consegna («occupati dell’intervento politico»), sia per la mia pretesa di fare un corso accelerato di teoria queer in 5 minuti. Non da ultimo, per le difficoltà che sono emerse nel cercare di parlare di esperienze non binary con persone cis: a un certo punto stava per saltare tutto a causa di due dead name in bella vista sulla locandina. Però dai, dopo i discorsi ci hanno dato le patatine.
Buona lettura!
Per iniziare voglio ringraziare le persone che hanno parlato prima di me, chi parlerà dopo di me, ma anche voi che siete qui ad ascoltarci questa sera. Io sarò breve, ma voglio scusarmi, perché questo intervento non è stato facile da scrivere, e spero nella vostra pazienza se alcune parti non saranno chiare o se altre le dovrò leggere direttamente.
In realtà questa difficoltà nel parlare dell’esperienza non binary non è casuale. Se vi è capitato di parlare con una persona non binary credo che lo sappiate. Nel momento in cui si conosce una persona non binary, o peggio ancora una persona che conosciamo da tempo fa coming out come non binary, mancano le parole per capirsi, per spiegarsi.
Non si sa che nome usare, che pronomi usare, come definire la persona che si ha davanti. E non si sa neanche quali domande si possono fare e quali potrebbero offendere. Spesso poi, e questo secondo me è la cosa più grave, non si trova il modo per andare oltre l’aspetto del genere, per dialogare su un piano più personale.
Una parte di questo è certamente data da una mancanza di formazione. È molto difficile capirsi quando non si ha in comune neanche la conoscenza di certi termini o certi concetti. Spero che l’intervento di Kay [che puoi trovare a questo link facebook] questa sera ci abbia dato questo tipo di “dizionario base”, e che tutt3 noi lo useremo andando avanti, spiegandolo anche a chi non lo conosce.
Però penso che questi problemi derivino anche da un altro fattore.
Per spiegarlo voglio tornare sulla mancanza di parole condivise (nomi propri, pronomi, nomi di identità e molto altro) di cui ho appena parlato. La mancanza di queste parole per le persone non binary non è solo una povertà lessicale, una difficoltà in più nel farsi capire. È la mancanza di un modo per parlare di noi stessx. È il sapere che la nostra storia, le nostre esperienze, i nostri sentimenti non sono normali. Non sono normali proprio perché non sono una delle possibilità pensabili, una delle differenze che hanno un nome, che sono riconosciute.
Eppure siamo qui, io sono qui, e vogliamo parlare. Ma non è facile parlare quando sai di poter usare solo quelle stesse parole che ti escludono – come uomo, donna, eterosessuale, omosessuale ecc.
Parliamo come persone non binarie, come se esistessimo solo in relazione a un sistema binario escludente che rigettiamo. Parliamo di identità non binaria, quando vogliamo affermare di vivere la disidentificazione di genere e sessuale. Parliamo di pronomi “giusti”, anche se sappiamo che tutti i pronomi sono sempre una scelta. Parliamo del nostro “vero” nome, come se dovessimo giustificare un gesto di autodeterminazione. Maneggiamo termini e discorsi pesanti, difficili, perché pieni di narrazioni che non ci appartengono.
Per cui, l’altra difficoltà di cui parlo, è proprio questa: che anche quando dicono parole come “identità”, “autodeterminazione”, “genere”, le persone fuori e dentro la norma binaria intendono cose diverse. Cose radicalmente diverse.
Ma non voglio che sembri che tutte le persone non binary dicono la stessa cosa. Diciamo tante cose quante sono le nostre storie, le nostre esperienze e le nostre identità.
Quando si fa terrore psicologico sull’ideologia gender, si cerca invece di mostrare queste rivendicazioni come un tentativo di imporre una nuova forza normativa. Di fare qualcosa di politico, nel senso di cercare di imporre un potere su altre persone. Ci sono le persone normali, le persone che vivono nella norma, e ci sono le persone non normali che vogliono invadere di quello spazio.
Il gesto politico che le persone non binary pretendono, invece, è smettere di considerarci come noi e loro, guardarci dentro e capire che siamo tutte quante persone che, in un modo o nell’altro, hanno già messo in discussione un sistema binario di genere. E l’abbiamo fatto perché siamo bisessuali, lesbiche, gay, trans*, asessuali e altro ancora. È proprio quest’esperienza ci deve unire, compagne nella lotta affinché l’unica cosa normale sia la mancanza di una norma. Perché finché c’è una norma, c’è qualcunə che ne è lasciatə fuori.
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