Eravamo le creature più antiche ad aver camminato sulla terraferma; le prime ad aver corso sulla superficie solida di questo pianeta pescando la vita dall’aria nitrosa e dalle profondità aride di Gaia. Più antiche dei rettili, più antiche perfino della luce, e solo perciò eravamo creature senza occhi.
Per evi ed eoni abbiamo vissuto al fianco di ogni altra forma di vita calda e fredda, ciò che si muove e ciò che è mosso, e anche di ciò che è difficile capire, come le spore, l’acqua che ribolle gas, e la Terra stessa che muta sotto di noi – ogni tanto si spacca ma non ci ha uccise. Tutte proprio tutte le specie, vi abbiamo percepite, accompagnate, ricordate con la memoria ancestrale dei sensi.
Come un solo essere, siamo sopravvissute alle ere riproducendoci senza sosta. Per generazioni la vostra pelle ignara è stata il nostro orizzonte, le vostre pellicce sono state le nostre tane. Mentre i vostri regni ciechi sorgevano e cadevano, gaudenti ci nutrivamo di voi.
Eravamo la presenza. La costante consueta inafferrabile vita che brulica senza meta, si propaga senza ragione, popola senza cittadinanza foreste, case, corpi, abita all’ombra degli animali umani, nelle vostre scarpe e fra i peli delle vostre sopracciglia. Eravamo il contesto: la materia di ciò esiste, la testimonianza animata che vibra, e vibrando si connette a tutto, per un attimo o per la durata del mondo.
Siamo sempre state il contesto. Nelle minute pieghe del mondo, la dimensione rimossa dalla carta geografica, c’era uno spazio invisibile per gli occhi, incomprensibile per la sua scala e il suo scopo. Un mondo che partecipa a sé stesso, che va e torna, porta e spinge, realizza e perde, produce e distrugge, nasce e muore. Nel contesto si andava avanti, noi coi nostri problemi e voi coi vostri. Noi a percepirvi e voi indifferenti.
Non era perfidia la vostra. Avevate un obiettivo da raggiungere, ognuno per sé, in un mondo che va sempre solo in una direzione, mentre intorno tutto è immobile. Spostarsi, insediarsi e alla fine riprodursi. Il meglio per voi era il meglio per tutto. Una specie grande e proficua, che vive al calore del sole, e alla luce. E siccome con gli occhi potevate guardarvi da lontano, vi consideravate l’un l’altro distinti, estranei, e la pelle bastava a recintare un pezzo di mondo che fosse solo vostro.
Neonata specie che muove i primi passi, ogni cosa intorno a lei è materia inerte. Vi parlavate e vi stringevate la mano, ignari della vibrazione, esistevate guardandovi negli occhi. Non avvertivate il fremito del contesto, il brulicare della vita da entrambi i lati della vostra pelle. Ogni essere dentro di voi era patogeno, e fuori parassita. Tutto ciò che era minimo era orribile, il nostro mondo a malapena reale, perché con la vista non conoscevate il solletico diffuso di una presenza viva.
Avremmo fatto meglio ad avere paura.
Iniziò in un momento preciso. Umani e acari avevano convissuto per millenni, ma tutto cambiò in fretta quando vi accorgeste di noi. L’ordine andava realizzato nel tempo precipitoso di brevi singole vite, perciò vi siete messi subito all’opera asciugando le paludi, distanziandovi dagli altri animali e dalle loro pellicce, estirpando le imperfezioni minimali come il batterio e il micelio, occupando e sterilizzando ogni luogo. Non fu per la vostra pelle ma per le vostre case, che un giorno trovaste il modo di far scomparire la polvere dal mondo.
Allora sono arrivate la scarsità, la fame e la corsa. Poi gradualmente è arrivata la solitudine, il senso della sempre più debole vibrazione. Senza il nutrimento che ci sosteneva da eoni abbiamo cominciato a morire, come organi e tessuti che muoiono dentro un organismo in procinto di disfarsi.
Ci spegnevamo e tutto intorno a noi il brulicare affievoliva. Quanto è durato non si sa. Ogni tanto si rianimava, ricominciava a pulsare; ma la frenesia era momentanea, come le scosse di assestamento. Sensazioni sconosciute si stavano intanto affacciando: lo sconforto, un vuoto inevitabile e un silenzio sconvolgente che non si era mai avvertito prima, neanche al tempo dell’azoto.
Si perdeva la capacità di sentire; un altro era come l’acqua e le spore, che non è facile dire se si muovono o sono mosse, se il loro calore significa qualcosa. Gradualmente si perdeva anche la memoria, prima quella di Gaia, poi quella delle specie che erano passate. I ricordi impressi nei sensi scivolavano via, mentre il fluire delle generazioni era sempre più lento e incerto, la vibrazione era rara e lo spazio era vasto.
Quando infine il brulichio si è spento, un solo acaro è rimasto vigile su questo pianeta. Allora, con sorpresa, ho aperto gli occhi.
Creature belle e spaventose, avrei pianto di meraviglia, se avessi saputo come usarli. E poi questo mondo luminoso e distante. Ma la meraviglia è subito passata. Vedevo la vita intorno a me, ma tutto era immobile.
Testo di Stefano Zuliani
Editing di A.V.
Illustrazioni di 00v
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